lunedì 27 dicembre 2010

L'ardore e la storia - 2



 
Ora che ho finalmente tra le mani il pregevole libro di Calasso, posso fare una rettifica: non è che il nostro autore sia ignaro delle teorie alternative, piuttosto le liquida sommariamente, seguendo probabilmente Witzel, citato varie volte, anche se non a questo proposito. Scrive infatti Calasso (p.26):
"Da alcuni anni è in corso un'affannosa ricerca di ossa di cavallo da disseppellire nel Panjab. Brandite come armi improprie, dovrebbero servire a sgominare e disperdere gli aborriti Indoeuropei venuti da fuori, di là dal Khyber Pass, dimostrando che la loro novità - il cavallo - apparteneva già a quei luoghi. [...] Quanto ai guerrieri montati su carri con cavalli, non ve n'è traccia nei sigilli della civiltà dell'Indo."

Per guerrieri montati su cavalli (senza carri), bisogna aspettare i reperti di Pirak, nel Belucistan, successivi al 1800 a.C. (vedi qui per un'immagine). Come nota giustamente Calasso, l'uso vedico del cavallo, come in Medio Oriente e in Egitto nel II millennio a.C., è associato al carro, di cui il Nostro dice altrove parlando degli Ārya (pp.19-20): "Si muovevano periodicamente su carri con ruote provviste di raggi. Quelle ruote furono la grande novità che apportarono: prima di loro, nei regni di Harappa e Mohenjo-daro si conoscevano solo le ruote compatte, solide, lente."

Questo è un tipico mito della scuola invasionista: come si può vedere dalle due immagini sopra, a sinistra troviamo su una tavoletta convessa di Harappa il simbolo della ruota con raggi (vedi l'immagine con commento a questa pagina), che qui appare isolato, ma è usato comunemente nella 'scrittura vallinda'. A destra vediamo invece ruote giocattolo dai siti di età harappana Banawali e Rakhigarhi (nello stato indiano dello Haryana) con evidente indicazione di raggi, dipinti e in rilievo.

Secondo mito: l'assenza del cavallo nei siti 'harappani'. Qui a sinistra (dall'articolo di Michel Danino The Horse and the Aryan Debate) abbiamo una statuetta di terracotta da Mohenjo daro: anche se non particolarmente dettagliata (cosa normale per questo genere di manufatti), la lunghezza del collo, la figura slanciata, l'attaccatura della coda, la fanno identificare con un cavallo, come già fece Mackay nel 1943. Un altra figurina di terracotta con corpo e coda tipicamente equini è quella a destra, proveniente dal sito harappano maturo di Lothal nel Gujarat. Altri esempi si possono trovare nello stesso articolo (una piccola testa di cavallo tra pedine da gioco!) e nell'articolo di Rajaram Vedic-Harappan Gallery. Benché si tratti di poche raffigurazioni, questa sembra essere la norma in India prima del III sec. a.C., come osserva Danino nel già citato articolo: " “the first deliberate and conscious attempt of shaping a horse in durable material like stone was witnessed in the art of the Mauryas in India,” writes historian T.K. Biswas. Another historian, Jayanti Rath, commenting on the animals depicted on early Indian coins, remarks: “The animal world of the punch-marked coins consists of elephant, bull, lion, dog, cat, deer, camel, rhinoceros, rabbit, frog, fish, turtle, ghariyal (fish eater crocodile), scorpion and snake. Among the birds, peacock is very popular. The lion and horse symbols appear to have acquired greater popularity in 3rd century B.C.” "
Potremmo anche aggiungere che negli inni rigvedici l'animale che più ricorre e risalta come simbolo non è il cavallo, ma il toro (insieme alla vacca): Agni, Indra e altri dèi sono chiamati spesso 'tori' (vṛṣa), e questo concorda con la preponderante iconografia bovina dei sigilli harappani. Inoltre, quando i poeti-sacerdoti celebrano i benefattori, menzionano spesso doni di centinaia di vacche ma di pochi cavalli: ṚV VII.18.22-23 parla di 200 vacche e 4 destrieri offerti come ricompensa dal sovrano vittorioso Sudās... E il famoso sacrificio del cavallo (aśvamedha) era fatto solo dal sovrano che voleva celebrare il suo dominio universale...
D'altro lato, se è vero che il cavallo diventa più frequente nel periodo tardo harappano (successivo al 1900 a.C.), si tratta proprio del periodo in cui situo la maggior parte della redazione del Ṛgveda.

Ma a parte le raffigurazioni, abbiamo la testimonianza concreta di ossa di cavallo, che secondo Calasso sono cercate affannosamente dai negatori dell'invasione... veramente, sono piuttosto gli invasionisti che sembrano affannarsi a negare l'esistenza di tali ossa, come risulta dal racconto di Danino a proposito di Hallur in Karnataka, dove sono state trovate ossa di cavallo datate tra il 1500 e il 1300 a.C., un po' troppo presto per un sito dell'India meridionale:

"the excavation (in the late 1960s) brought out horse remains that were dated between 1500 and 1300 BCE, in other words, about the time Aryans are pictured to have galloped down the Khyber pass, some 2,000 [km.] north of Hallur. Even at a fierce Aryan pace, the animal could hardly have reached Karnataka by that time. When K.R. Alur, an archaeozoologist as well as a veterinarian, published his report on the animal remains from the site, he received anxious queries, even protests: there had to be some error regarding those horse bones. A fresh excavation was eventually undertaken some twenty years later — which brought to light more horse bones, and more consternation."

Ma, come scrisse l'archeologo S.P. Gupta nel suo The Indus-Saraswati Civilization, pp.159-163, Bhola Nath, "the most leading archaeo-zoologist of India" già nel 1968 identificò alcune delle ossa da Lothal (sito harappano del Gujarat) come di cavallo domesticato: Equus caballus Linn. Lo stesso riconobbe ossa di cavallo ad Harappa (livello maturo) e a Ropar nel Panjab. Nel 1974 A.K. Sharma identificò le ossa di Surkotada nel Kacch come di cavallo, e l'esperto di reperti equini ungherese Sándor Bökönyi confermò nel 1991 tale identificazione. Danino riporta anche il caso di Mahagara, vicino ad Allahabad, quindi in un'area molto più orientale, dove test al carbonio 14 sulle ossa di cavallo lì rinvenute hanno offerto datazioni tra il 2265 a.C. e il 1480 a.C. E il caso della valle del Chambal in Madhya Pradesh, dove M. K. Dhavalikar oltre alle ossa trovò una figurina di giumenta: "The most interesting is the discovery of bones of horse from the Kayatha levels and a terracotta figurine of a mare. It is the domesticate species (Equus caballus), which takes back the antiquity of the steed in India to the latter half of the third millennium BC."

Insomma, è assodato che nel III millennio a.C., in piena età harappana matura, il cavallo domestico era già ben presente, probabilmente importato, piuttosto che portato da invasori, dei quali gli archeologi (persino occidentali) non danno più conferma. Eppure, Calasso cita i "pochi elementi indubitabili" presentati da Frits Staal (illustre studioso di filosofia, linguistica e ritualismo vedico, ma non proprio uno storico o un archeologo) (pp.29-30): "Più di tremila anni fa, piccoli gruppi di popoli semi-nomadi attraversarono le regioni montuose che separano l'Asia centrale dall'Iran e dal subcontinente indiano. [...] L'interazione fra questi avventurieri centroasiatici e i precedenti abitanti del subcontinente indiano diede origine alla civiltà vedica [...]" In tutto ciò, di 'indubitabile' non c'è niente. Un po' più avanti Calasso avanza tuttavia qualche dubbio sulla recente tendenza degli studiosi che "Per paura di essere accusati di presentarli come bianchi Ariani predatori [...] hanno attenuato e smussato, per quanto potevano, l'immagine degli uomini vedici. Ora non sono più conquistatori che irrompono dalle montagne e mettono a ferro e fuoco il regno degli autoctoni, soggiogandoli crudelmente. Ora sono un gruppo di emigranti che, alla spicciolata, filtrano in terre nuove senza quasi incontrare resistenza, perché la precedente civiltà dell'Indo si è già estinta, per cause non accertabili. Correzione doverosa, corrispondente ai magri dati archeologici, ma talvolta sospettabile di un eccesso di zelo."
Bisogna dire che questa correzione non corrisponde ai 'magri' dati archeologici. Ma Calasso segue le sue fonti accademiche occidentali, per discostarsene però proprio quando mettono in dubbio l'invasione. Cosa da un certo punto di vista ragionevole, dato che è abbastanza inverosimile che un popolo possa prendere il sopravvento senza colpoferire: il fatto è che in questo modo torna al buon vecchio invasionismo ottocentesco.

Con tutto ciò non voglio certo demolire l'opera di Calasso, che mi si prospetta come straordinariamente preziosa in quanto sguardo fresco e inedito sulla civiltà vedica, con punti di vista non accademici che possono rivelare significati profondi. Voglio solo invitare chi, come lui, parla dell'India vedica anche da un punto di vista storico di approfondire il problema e non fermarsi alla versione di professori occidentali solo perché insegnano in università prestigiose. Invito a studiare il punto di vista degli archeologi e studiosi indiani, che magari hanno più voce in capitolo riguardo alla loro storia di quanta ne abbiano tedeschi, francesi o americani. E mi stupisco un po' che chi mostra di amare tanto i Veda come Calasso trascuri la loro versione dei fatti, che non contempla invasioni dall'Asia centrale, e che chi ha pubblicato i classici del Tradizionalismo preferisca adottare l'ottica sull'India dei moderni europei rispetto a quella tramandata per millenni nella terra di Bharata...

lunedì 20 dicembre 2010

Mille sentenze indiane - Enumerazioni 4

891. Il turbamento rivela l'amore; l'aspetto del corpo rivela il cibo; l'educazione rivela la famiglia; il parlare rivela il paese.
892. Il denaro si fa beffe dell'avido, alieno dalle doverose elargizioni; la terra si fa beffe di chi va dicendo:  « la terra è mia »; la vecchiaia si fa beffe di chi accarezza i figliuoli; la morte si fa beffe del re che teme il campo di battaglia.
894. La donna va in rovina per la bellezza, il brammano nel servire il re, le vacche se il pascolo è troppo lontano, l'oro per la cupidigia.
895. Il cigno risplende tra il fogliame del loteto; il leone, nelle caverne montane; il cavallo di razza, sul campo di battaglia; il dotto, fra gli uomini intelligenti.

mercoledì 8 dicembre 2010

L'ardore e la storia


Domenica scorsa è apparso in televisione, a 'Che tempo che fa', Roberto Calasso per parlare del suo ultimo libro: "L'ardore". Stimolante e meritevole impresa di comprensione della civiltà indiana dei Veda. Per ora ho letto solo interviste, presentazioni e brevi brani, e non posso discutere dei contenuti e delle interpretazioni, ma quello che già è emerso con chiarezza è la presentazione del contesto storico dei Veda del tutto in linea con gli stereotipi accademici. Non si può dare la colpa a Calasso di aver seguito le fonti classiche dell'indologia, ma il fatto che uno studio di 15 anni (tanti ha richiesto la preparazione di quest'opera) non abbia fatto emergere le teorie alternative che da più di 15 anni sono state avanzate a proposito degli Arii vedici e del loro rapporto con la civiltà harappana, è significativo e abbastanza triste. Calasso ha dato una presentazione del 'paradosso di Frawley' (lo studioso americano che sostiene una forma dell'identità vedico-harappana): una civiltà materiale (quella harappana) senza parola e una parola (i Veda) senza tracce materiali. Però lo accetta senza riconoscerne l'intrinseca improbabilità, come un affascinante enigma. E' vero che la civiltà vedica ha lasciato poche tracce visibili, i sacrifici vedici non facevano uso di templi e (a parte qualche eccezione) di immagini, ma di capanni e fuochi sacri. D'altro lato, pensare che la civiltà harappana, che occupava un milione di kmq. e comprende centinaia di siti, alcuni molto vasti, e faceva uso di una complessa scrittura, sia scomparsa senza lasciare memoria di sé, è cosa decisamente insostenibile. E così, un'opera che svolgerà un'importante funzione divulgativa sui Veda continuerà a inculcare il solito mito della discesa degli Arii da luoghi misteriosi nel 1500 a.C., portando il cavallo e la ruota con raggi (che invece esistevano anche nella civiltà harappana: sono stati trovati denti di cavallo in vari siti, e la ruota raggiata appare sia come simbolo della scrittura dei sigilli sia nelle linee dipinte su apparenti ruote piene dei carretti di terracotta). E milioni di telespettatori hanno imparato questa versione della storia dell'India e degli Arii come un dato di fatto... non mi presterò anch'io a chiedere un contraddittorio, del resto la trasmissione di Fazio non è un documentario di storia, però sarebbe venuto il momento di poter diffondere versioni più fondate del contesto in cui è cresciuta la civiltà vedica, radice della civiltà dell'India e ramo possente del grande albero indoeuropeo...

domenica 31 ottobre 2010

Mille sentenze indiane - Enumerazioni 3

870. Entrare senza esser chiamato, ciarlare senza essere interrogato, dir bene di sé stesso e male degli altri: quattro indizi di leggerezza.
875. Non c'è nessuno che non sia stato ingannato dal buon contegno di nuovi servitori, dalle parole di un ospite, dalle lacrime di una lusingatrice e dal profluvio di parole dei furbi.
879. L'ospite, il bambino, il re e la moglie non vogliono sapere se una cosa c'è o non c'è; ma non fanno che dire "dammi, dammi!".
889. L'uomo volgare non si sazia di ammassare denaro; il sapiente non si sazia di belle massime; l'oceano non si sazia di accogliere acque; l'occhio non si sazia di mirare cose gradite.

domenica 17 ottobre 2010

La cerimonia d'apertura dei giochi del Commonwealth Delhi 2010 - Yoga, religioni e India moderna




Nel seguito della cerimonia, si dà un saggio di varie posizioni yoga (asana) con uno sfondo di mantra, tra cui l'antichissimo e ancora popolarissimo Gāyatrī Mantra. Impressionante l'immagine dell'uomo di luce con i diversi Chakra ('ruote' o centri psichici del 'corpo sottile') associati nella tradizione tantrica a corolle di determinati colori e numeri di petali, e a 'sillabe-seme' che troviamo qui scritte in Devanāgarī: Laṃ su rosso per il Mūlādhāra (perineo), Vaṃ su arancione per lo Svādhiṣṭhāna (base della colonna vertebrale), Raṃ su giallo per il Maṇipūra (ombelico), Yaṃ su verde per l'Anāhata (cuore), Haṃ su blu per il Viśuddha (gola), Oṃ su indaco per l'Ājñā (spazio tra le sopracciglia), Oṃ su viola per il Sahasrāra (cima del capo).
Dopo questa celebrazione della tradizione yoga, abbiamo una sequenza sulle grandi religioni che si trovano in India, con foto degli edifici sacri e canti caratteristici: prima l'Induismo, poi il Buddhismo, quindi l'Islam, poi il Cristianesimo, il Sikhismo e, apparentemente, i culti animisti con alcune danze tribali. Appare quindi il treno delle Indian Railways, con una miscela intesa a rappresentare l'India contemporanea: un ballerino bollywoodiano e un sādhu, bracciali e teiere, biciclette e sagome di attori, il nuovo simbolo della rupia e la stella a sei punte associata a Durgā, la dea dell'energia cosmica (śakti). 

lunedì 11 ottobre 2010

La Cerimonia d'apertura dei giochi del Commonwealth Delhi 2010: una suggestiva sintesi della civiltà dell'India


In questo video tratto dalla grandiosa cerimonia d'apertura dei giochi del Commonwealth a New Delhi, vediamo alcuni stili tradizionali di danza in associazione con le stagioni: l'Odissi dello stato orientale dell'Orissa (primavera), il Bharatanatyam, danza classica per eccellenza, tipica del Tamil Nadu nel sud dell'India (estate), il Kathak dell'India settentrionale (stagione dei monsoni), la danza Manipuri dello stato nordorientale di Manipur e il Mohiniattam del sudoccidentale Kerala (autunno), infine lo stile Kuchipudi dell'Andhra Pradesh (inverno). All'accompagnamento musicale si aggiungono alcuni canti che ripetono spesso i nomi delle note della musica classica indiana: Sa Ri Ga Ma Pa Dha Ni, oppure fanno uso della caratteristica 'lingua dei tamburi', riproducendo le sequenze ritmiche con sillabe convenzionali.
Dopo le danze, inizia la rappresentazione dello Yoga.

sabato 2 ottobre 2010

Mille sentenze indiane - Enumerazioni 2

858. La diletta, onusta di onestà; un'edera, onusta di fiori; un discorso, onusto di senso - hanno un'ineffabile bellezza.
859. Meglio è tacere che parlare; dir la verità, viene in secondo luogo; in terzo, dire ciò che è giusto; in quarto, dire cose gradite.
861. Quattro cose muovono altrui al riso: uno stolto che fa poesie, un fioco che canta, un povero con arie da vagheggino, un vecchio sensuale.
862. Quattro doti non si acquistano con lo studio, ma sono innate in certi individui: la musica, la poesia, l'eroismo, la generosità.
865. Generosità congiunta con affabilità; dottrina senza alterigia; coraggio accompagnato da mitezza; ricchezza unita a liberalità; ecco quattro belle cose difficili a trovarsi.

lunedì 27 settembre 2010

Costruttori di ponti, costruttori di steccati



Un mese fa ci ha lasciati Raimon Panikkar, celebre filosofo e teologo, prolifico scrittore e promotore del dialogo interreligioso. Un uomo che già in partenza, già nell'aspetto fisico, univa India e Europa, essendo figlio di padre indiano induista e madre catalana cattolica. Questa duplice identità la viveva in modo paradossale, dichiarando: “Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo hindú, ma totalmente occidentale e totalmente orientale.” Visse in Spagna, in Italia, in India e negli Stati Uniti, venendo così in contatto personale con questi diversi mondi culturali e religiosi.  
Per una sua biografia, si può guardare la pagina del sito a lui dedicato, oppure, più estesamente, i post di Krishna Del Toso. Quello che colpisce, in Panikkar, è il suo unire diverse identità religiose, pur essendo sacerdote cattolico dal 1946: “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano.” Questa compresenza e non-esclusività lo rendevano un simbolo del dialogo tra culture e religioni, un ponte vivente, oltre che un costruttore di ponti. Agli antipodi dell'esclusivismo religioso che caratterizza gran parte della Chiesa cattolica (nonostante gli encomiabili sforzi per il dialogo), la quale oggi aborrisce il sincretismo, pur avendo in sé elementi di tante culture e tradizioni religiose: tradizione biblica ebraica e filosofia greca, diritto e sacerdozio romano (il pontifex), riti misterici orientali (uso della mitria, Natale il 25 dicembre) e pagani (feste popolari, culti cristianizzati)... tra i santi della Chiesa era incluso anche il 'Bodhisattva', il futuro Buddha, col nome di 'Josaphat' (vedi).
Ma tra i costruttori di steccati non ci sono solo i cattolici conservatori, o i missionari protestanti che sono ancora più drastici nel loro portare il Cristianesimo in altre culture. Ci sono anche intellettuali illuministi e marxisti, che in nome del razionalismo materialista vedono l'Oriente come una minaccia, e cercano di difendere la cultura occidentale da pericolose contaminazioni. Nella prefazione di Edoardo Sanguineti a La grande festa di Vittorio Lanternari (illustre antropologo di inspirazione marxiana), si cita un'intervista del '78, in cui Lanternari si dichiarava preoccupato per la diffusione di uno scrittore come Hermann Hesse (anatema!) tra i giovani della nuova sinistra, che pretendevano di "trapiantare modelli della cultura orientale nella cultura occidentale." Ora, non voglio identificare Lanternari, che come antropologo era un promotore della conoscenza delle altre culture, solo come un costruttore di steccati, ma evidentemente il suo approccio era quello di un rifiuto dell'intromissione della cultura orientale in quella occidentale. Del resto, l'antropologia è nata con l'imperialismo eurocentrico, e ha cercato di conoscere le altre culture come dall'alto, secondo l'ottica della superiore ragione occidentale che studia l'irrazionalità 'primitiva' (come nel dualismo di Lévy-Bruhl). Qualcosa di analogo è accaduto nell'orientalismo nel senso di E.Said, dove l'Oriente è diventato il simbolo dell'irrazionalità, in quanto opposto al razionale Occidente.
E così, sia cattolici che razionalisti si trovano alleati in quella che potremmo chiamare orientofobia, la paura di un mondo diverso, in un certo senso oscuro e demoniaco... Proprio in coloro che vogliono essere più civili e più razionali, riemerge il classico dualismo arcaico tra l'Ordine (rappresentato dalla propria civiltà) e il Caos (rappresentato dall'Altro). Curiosamente, molti orientali (e gli Indiani in particolare) si rivelano molto meno inclini a questo dualismo rispetto agli occidentali. Nella sua apertura Panikkar si è rivelato molto indiano: gli intellettuali indiani, se non sono fondamentalisti o esasperatamente nazionalisti, tendono a pensare generosamente in termini universali e pluralisti, guardando l'umanità come un'unità piena di differenze individuali, ma non divisa in culture inconciliabili. L'India è abituata alla pluralità di filosofie e religioni al suo interno, e ha spesso avuto la tendenza a superare le divisioni in un'unità comprensiva, senza eliminare la pluralità. I maestri spirituali indiani, o tibetani, tendono a sottolineare l'uguaglianza di tutti gli esseri umani nelle esigenze fondamentali, mente gli occidentali continuano a parlare di conflitto di civiltà, di differenze incolmabili tra Oriente e Occidente... L'occidentale tende ad analizzare in categorie astratte, e a combattere o ad assimilare l'Altro. L'indiano (e chi, come il buddhista tibetano, deriva dall'India la visione del mondo) punta il dito su ciò che ci accomuna, più profondo di ciò che ci divide, e propone la sua filosofia come un metodo universale, non come un modo per 'indianizzare' o 'orientalizzare' l'Occidente. L'indiano guarda agli universali filosofici e psicologici, più che alle superficiali differenze culturali. Naturalmente anche l'India ha i suoi nazionalisti (in modo forse sempre più marcato), ma è dagli Inglesi che ha imparato il nazionalismo. Ancora Keyserling, agli inizi del Novecento, sosteneva che gli Indiani erano superiori al nazionalismo. E il più autentico pensiero indiano è universale, come ha dimostrato anche nella diffusione del Buddhismo in mezza Asia e persino del cosiddetto Induismo (nel Sudest asiatico e più recentemente in Occidente).
L'Occidente, soprattutto l'Europa, soffre di sindrome dell'assedio, vittima di un'immigrazione imponente (che per certi versi è un riflusso del colonialismo). D'altro lato, le culture non occidentali hanno un loro appeal sugli occidentali, soprattutto a livello di cultura 'popolare'. Per parlare dell'Asia, abbiamo la diffusione dello yoga e delle arti marziali, dell'Ayurveda e della medicina cinese o tibetana, della meditazione e delle 'filosofie orientali' fino all'autentica adesione religiosa a varie forme dell'Induismo e del Buddhismo. Fenomeni in espansione e ormai apparentemente stabili, che dovrebbero far pensare che il conservatorismo dei costruttori di steccati è condannato alla sconfitta, in un mondo di relazioni sempre più strette, e in un Occidente sempre meno sicuro della propria identità. Infatti, l'identità cattolica o cristiana e quella razionalista-positivista, difese dai conservatori, entrano in crisi, diventano permeabili, spesso vengono abbandonate. Rigurgiti identitari fanno bandiera dei simboli cristiani o etnici (padani...), ma sono operazioni di facciata, che tradiscono una certa artificiosità, sostenuta più dal sospetto per il diverso che da una identità solida, come mostrano anche le opposte iniziative di distruzione dei simboli altrui (rogo del Corano, rifiuto dei minareti o delle moschee). L'Occidente si deve rassegnare al pluralismo che ha spesso avuto la tendenza a rifiutare in nome di una verità assoluta che diventava anche Potere: prima quella dell'Impero romano, poi quella del Papato con la Santa Inquisizione, poi quella dell'imperialismo europeo, o della Scienza illuminista, del Socialismo reale, o anche del Mercato capitalista. Uniformare dall'alto e combattere o assimilare tutto ciò che si oppone. Ma la nuova tendenza non è più quella imperialista (falliti gli ultimi tentativi dell'America di Bush), è quella dello steccato, dell'autodifesa, dell'arroccamento nella propria rassicurante uniformità già data. 
Di fronte a queste scelte fallimentari e ottuse, è bene coltivare un'intelligente apertura, persino senza affermare immaginarie appartenenze identitarie, la cui utilità sembra stare solo nell'autocompiacimento e nel volersi distinguere dagli altri. Riconoscere che ognuno di noi è un individuo unico e al contempo un essere umano (o un essere vivente) come gli altri, e che il conflitto tra civiltà esiste fino a che crediamo in civiltà nettamente distinte e inconciliabili. Possiamo spaziare nelle varie culture, trovando ciò che ci appare più benefico e convincente, senza preclusioni. Persino un antico occidentale come Terenzio (d'altronde d'origine africana) era arrivato a scrivere: homo sum: humani nihil a me alienum puto "Sono un uomo: niente di umano io ritengo a me estraneo"...    

mercoledì 8 settembre 2010

Mille sentenze indiane - Enumerazioni

829. Questi due uomini non sono mai felici nel mondo: chi, senza denari, s'innamora; chi, senza potenza, s'adira.
834. Chi vuole un'amicizia lunga, queste tre cose non faccia: stare a tu per tu, comunanza d'interessi, chiacchierare con la moglie dell'amico.
840. La scienza di chi è troppo modesto; il denaro dell'avaro; la forza del braccio del pauroso - sono tre cose inutili nel mondo.
843. Una notizia che eccita la curiosità; una scienza immacolata; il profumo straordinario del muschio: queste tre cose si diffondono di per sé sulla terra, irresistibilmente, come una goccia d'olio sull'acqua.

mercoledì 18 agosto 2010

La rinascita di Nalanda


Nalanda è uno dei luoghi simbolo della storia dell'India, e dell'Asia intera. Fu forse il centro più internazionale dell'India antica, attivo almeno dal V al XII secolo. Produsse filosofia raffinatissima, capace di parlare ancora all'uomo contemporaneo, e che per certi aspetti è molto più attuale di tanta filosofia occidentale dopo la crisi della metafisica.
Vi si sviluppò infatti la scuola buddhista Madhyamika o della Via di Mezzo, che sostiene la relatività di tutti i concetti convenzionali, e la vacuità di un'esistenza intrinseca, indipendente e oggettiva dei fenomeni (nozione che ha interessato anche la fisica contemporanea). Un'altra scuola che vi fu coltivata fu quella Cittamatra, che sosteneva che tutta la realtà è della natura della mente o coscienza, proponendo la prima forma di idealismo della storia, più di mille anni prima di Berkeley, Fichte o Hegel. A questa scuola apparteneva il pellegrino cinese Xuan Zang, che  studiò a Nalanda nel VII secolo e ci ha lasciato bellissime descrizioni di questa istituzione nel colmo della sua fioritura.
Una di queste fa pensare a una pittura cinese: "Le torri riccamente ornate, e le torrette simili a fate, come cime di colline, sono raccolte insieme. Gli osservatori sembrano persi tra i vapori dell'alba e le stanze superiori sovrastano le nuvole. Dalle finestre si vedono i venti e le nuvole che producono nuove forme e, sopra l'altissima grondaia, l'unione del sole e della luna. Gli stagni, profondi e trasparenti, sono ricoperti di fiori di loto blu e di fiori Kanaka dal colore rosso intenso, mentre gli ubertosi boschetti di manghi diffondono ovunque la loro ombra salutifera. Tutte le corti all'intorno, dove affacciano le stanze dei monaci, sono di quattro piani. I piani sono sottolineati da dragoni aggettanti e cornicioni colorati. Ovunque i pilastri perlacei o rossi, scolpiti e ornati, si alternano alle balaustre riccamente adorne e ai tetti rivestiti con tegole che riflettono la luce in mille sfumature. I Sangharama dell'India sono miriadi, ma questo è il più importante per bellezza e altezza."
Per entrare a Nalanda, bisognava sostenere dei dibattiti di fronte ai 'guardiani delle porte', monaci particolarmente eruditi, e pare che su 10 candidati passassero solo 2 o 3. Xuan Zang così descrive lo svolgersi di corsi e dibattiti: "La giornata intera non è sufficiente a porre quesiti profondi e a rispondervi. Sono occupati nelle discussioni dalla mattina alla sera; gli anziani e i giovani si aiutano l'un l'altro... uomini di cultura, che desiderano acquisire velocemente fama nelle discussioni, vengono in questo luogo da città lontane per risolvere i propri dubbi e permettere al flusso della loro saggezza di dispiegarsi pienamente."
I monaci studiavano le varie scuole del Buddhismo, i testi sacri buddhisti, i Veda, le Upaniṣad, i Purāṇa, la filosofia Vedānta e Saṃkhya, la logica, la grammatica sanscrita, la legge, la medicina, la matematica, l'astronomia, l'astrologia, la magia, le belle arti, il tiro con l'arco, la danza e la musica (informazioni e citazioni tratte da M.L. Di Mattia, Una grande università, nell'enciclopedia Il Buddha, i Luoghi); e dalla biografia di S.H. Wriggings, Xuanzang. Un pellegrino buddhista sulla Via della Seta).
L'università, con la sua biblioteca, subì dei devastanti attacchi con l'arrivo dei conquistatori turco-afghani, in particolare Muhammad Khalji bin Bakhtyar nel 1193, ma la sua fine arrivò secoli dopo, visto che nel 1400 risulta ancora funzionante (http://en.wikipedia.org/wiki/Nalanda#Decline_and_end, confronta anche le interessanti considerazioni critiche, che cercano di ridimensionare iul ruolo distruttivo dell'Islam, di Elverskog, Buddhism and Islam on the Silk Road). Pare anche che la distruzione della biblioteca fu provocata in un'occasione da seguaci del brahmanesimo in seguito a un sacrificio del fuoco (vedi Dwivedi, Evolution of Education Thought, pp.157-8). Possiamo immaginare l'indifferenza o l'ostilità di questi guerrieri mussulmani verso un'istituzione di una religione profondamente estranea al loro modo di pensare (ammesso che ne sapessero qualcosa), che rappresentava un pericoloso centro di riferimento culturale (e di tesaurizzazione) della realtà socio-politica precedente all'arrivo del governo islamico. Si racconta che Muhammad Khalji prima di bruciare l'immensa biblioteca di Nalanda, chiese se vi fosse contenuto anche il Corano, e apprendendo che non c'era passò tranquillo all'opera di distruzione. E' un aneddoto che ricorda quello che raccontò Bar-Hebraeus della distruzione della biblioteca di Alessandria a opera degli arabi, secondo cui il generale ʿAmr ibn al-ʿĀṣ chiese al califfo Omar se dovesse distruggere la biblioteca, ricevendone la risposta che se quei libri contenevano cose già contenute nel Corano erano superflui, se contenevano cose diverse, meritavano di essere distrutti ( vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Library_of_Alexandria, cfr. le critiche e controcritiche di questo aneddoto in http://it.wikipedia.org/wiki/Biblioteca_di_Alessandria#Distruzione_della_biblioteca). E' significativo come la religione del Libro possa condurre a distruggere biblioteche (è accaduto anche nel caso del cristianesimo con il Serapeo di Alessandria) da un angolo all'altro del mondo (una discussione di questi episodi in relazione a eventi ben più recenti si può trovare in un post dello scrittore indiano Muhammad Hussain).
Questo non significa che ciò sia un corollario necessario dell'Islam, e che ogni mussulmano avrebbe condiviso tale opera di distruzione: come è noto, gli arabi studiarono i libri dei filosofi greci, e Al Biruni, intorno al 1000, aveva studiato approfonditamente la scienza e la filosofia dell'India, accennando anche alla sua componente buddhista. Celebre è anche l'hadith secondo cui il profeta Muhammad aveva detto che merita cercare la conoscenza persino in Cina...



Recentemente su Repubblica.it Bultrini ha scritto del progetto di costruire una nuova università presso le rovine di Nalanda (vedi foto), come simbolica rinascita dell'istituzione antica (www.repubblica.it/esteri/2010/08/05/news/universita_budda-6080165/?ref=HREC2-11http://).
L'idea è interessante, perché vuole costituire un istituto accademico alternativo a quelli occidentali, finanziato da Singapore, Cina, India e Giappone, ma anche probabilmente da Australia e Nuova Zelanda, che evidentemente si sentono vicini alla causa asiatica (vedi articolo del Times of India).
Un particolare suggestivo è che tale progetto pare che sia stato ideato anche dal precedente presidente dell'India, il mussulmano Abdul Kalam, particolarmente sensibile al tema dell'istruzione(http://en.wikipedia.org/wiki/Nalanda_International_University). Le materie di studio dovrebbero essere studi buddhisti, filosofia e religioni comparate; studi storici; relazioni internazionali e (scienze per la) pace; business management e sviluppo; lingue e letteratura; ecologia e studi ambientali. C'è quindi un nesso col passato tradizionale di Nalanda e un'apertura verso studi d'avanguardia molto attuali. Un singolare ibrido, che in qualche modo continua la varietà di discipline dell'antica Nalanda, anche se la sua finalità e struttura si rivelerebbe molto diversa, decisamente 'secolare' (non per nulla coinvolge anche Amartya Sen, che già voleva estromettere il Dalai Lama dal progetto), traendo dall'antica istituzione forse solo una vaga ispirazione e una patina di nobiltà, ma offrendo anche un'interessante prospettiva per lo sviluppo di una nuova cultura indiana e asiatica. Se sarà solo una copia del modello occidentale, ce lo mostrerà la sua realizzazione.

lunedì 26 luglio 2010

Mille sentenze indiane - Viaggi

793. L'uomo che non viaggia per vedere tutta la terra, piena di tante meraviglie, è come un ranocchio nella sua pozzanghera.
794. A chi non viaggia per i paesi, a chi non frequenta i dotti, l'intelletto si restringe come una goccia di burro sull'acqua. Ma a chi viaggia per i paesi, a chi frequenta i dotti, l'intelletto si allarga, come una goccia d'olio sull'acqua.

domenica 13 giugno 2010

Una prova genetica di una migrazione dall'India all'Europa


E' stato pubblicato online l'importante articolo del genetista americano  P.A. Underhill (et alia) sul gruppo genetico R1a (http://www.scribd.com/doc/23322591/Underhill-Et-Al-2009-Separating-the-Post-Glacial-Coancestry-of-European-and-Asian-Y-Chromosomes-Within-Hap-Lo-Group-R1a).


La mappa in verde qui sopra mostra la frequenza dell'aplogruppo R1a1a-M17, quella in rosso l'età calcolata in diverse regioni dell'Eurasia. Appare chiaramente che l'area più antica comprende il Sind e il Gujarat, con un'espansione verso ovest che trova nuove apparenti aree di irradiazione nel Caucaso e in Polonia. Si dice nell'articolo: “Analysis of associated STR diversity profiles revealed that among the R1a1a*(xM458) chromosomes the highest diversity is observed among populations of the Indus Valley yielding coalescent times above 14 KYA (thousands of years ago), whereas the R1a1a* diversity declines toward Europe where its maximum diversity and coalescent times of 11.2 KYA are observed in Poland, Slovakia and Crete.”
Quindi, nella valle dell'Indo l'aplogruppo R1a1a risulta più antico del 12000 a.C., mentre in Polonia, Slovacchia e Creta risalirebbe al 9200 a.C. circa.
Ancora: “Also noteworthy is the drop in R1a1a* diversity away from the Indus Valley toward central Asia (Kyrgyzstan 5.6 KYA) and the Altai region (8.1 KYA) that marks the eastern boundary of significant R1a1a* spread”.
Quindi, nel Kirghizistan, che pure ha un'alta percentuale di individui portatori di R1a1a, l'antichità di questo aplogruppo appare risalire solo al 3600 a.C., nell'Altai al 6100 a.C.
Quindi, sulla base di questi calcoli arriviamo alla conclusione che una popolazione sudasiatica si diffuse prima verso l'Europa, e più tardi verso l'Asia centrale. Non c'è dunque una migrazione antica dall'Europa verso l'Asia meridionale, o dall'Asia centrale verso quella meridionale, ma l'opposto. 
Se vogliamo collegare l'aplogruppo R1a1a con gli Indoeuropei, idea che rimane attraente, visto che sembra essere il solo aplogruppo che unisce con frequenze significative Indoarii, Iranici, Anatolici, Greci, Slavi e Germanici (meno i parlanti lingue romanze o celtiche), dovremmo ammettere che l'origine degli Indoeuropei è nell'Asia meridionale, e non in Europa orientale. Qui, troviamo una mutazione dell'aplogruppo, chiamata da Underhill R1a1a7:
“In Europe a large proportion of the R1a1a variation is represented by its presently identified subclade R1a1a7-M458 that is virtually absent in Asia. Its major frequency and relatively low diversity in Europe can be explained thus by a founder effect that according to our coalescent time estimation falls into the early Holocene period, 7.9±2.6 KYA. The highest regional date of 10.7±4.1 KYA among Polish R1a1a7 carriers falls into the period of recolonization of this region by Mesolithic (Swiderian and subsequent cultures) settlers. […] It should be noted, though, that the inevitably large error margins of our coalescent time estimates do not allow us to exclude its association with the establishment of the mainstream Neolithic cultures, including the Linearbandkeramik (LBK), that flourished ca. 7.5-6.5 KYA BP in the Middle Danube (Hungary) and was spread further along the Rhine, Elbe, Oder, Vistula river valleys and beyond the Carpathian Basin.”
Quindi, sembra che l'R1a1a7 sia sorto in Polonia tra il 12800 e il 4600 a.C., in una cultura che può essere quella mesolitica o quella neolitica della ceramica lineare che si diffuse tra Ungheria, Balcani, Germania e Polonia (http://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_della_ceramica_lineare). In tal modo, il popolo portatore dell'R1a1a nell'Europa orientale può essere associato alla rivoluzione neolitica in quest'area.

L'antichità di questa subclade e la sua assenza in Asia mostrano che non c'è stata migrazione dall'Europa all'Asia centrale in tempi recenti: “Although the R1a1a* frequency and diversity is highest among Indo-Aryan and Dravidian speakers, the subhaplogroup R1a1a7-M458 frequency peaks among Slavic and Finno-Ugric peoples. Although this distinction by geography is not directly informative about the internal divisions of these separate language families, it might bear some significance for assessing dispersal models that have been proposed to explain the spread of Indo-Aryan languages in South Asia as it would exclude any significant patrilineal gene flow from East Europe to Asia, at least since the mid-Holocene period.”

Poiché il periodo del medio Olocene è intorno al 4000 a.C., ciò significa che dopo quell'epoca, che è il limite minimo per l'origine della subclade R1a1a7, non possiamo supporre una migrazione dall'Europa all'Asia centrale e meridionale, e questo confuta tutte le teorie che suppongono che il popolo Kurgan della regione del Mar Nero andò verso l'Afghanistan durante la civiltà di Battriana e Margiana (BMAC, del III-II mill. a.C.) e poi in India (II mill. a.C.).
D'altro lato, la migrazione del popolo dell'R1a1a dall'Asia meridionale all'Europa appare molto più antica di quanto si è ipotizzato normalmente per la diffusione delle lingue indoeuropee, prima dell'età del Bronzo, durante il periodo mesolitico o neolitico. Quindi, se colleghiamo l'R1a1a con i parlanti indoeuropeo, dobbiamo antedatare questa diffusione, e vedere gran parte dell'Europa neolitica come già indoeuropea, rovesciando la teoria di Gimbutas sull'Europa antica, pre-Kurgan, come un mondo agricolo pacifico non indoeuropeo. D'altronde, anche un sostenitore dell'ipotesi Kurgan come Villar ha riconosciuto nella toponimia iberica uno strato indoeuropeo risalente all'epoca neolitica. Quanto all'Alteuropäisch del Krahe, ovvero quella terminologia che si trova solo nelle lingue indoeuropee d'Europa centrale e occidentale, ma non in greco o in sanscrito, potrebbe essere legata al popolo dell'R1a1a7, che, significativamente, è assente anche in Grecia. Tale data antica dell'arrivo dei portatori dell'R1a1a e delle lingue indoeuropee contraddirebbe comunque la teoria della continuità paleolitica di Alinei e Costa, perché attribuirebbe le culture paleolitiche a popolazioni preindoeuropee.
D'altronde, non tutto l'R1a1a in Europa è R1a1a7, quindi forse non possiamo escludere successive migrazioni di popoli dall'Asia all'Europa, portando le lingue indoeuropee (tra cui il greco, molto più vicino al sanscrito o all'iranico di altre lingue europee): abbiamo esempi di migrazioni in Europa di popoli iranici come Sciti, Sarmati e Alani, e dei Rom e Sinti indiani, anche in tempi storici.

Mille sentenze indiane - Dolore e Gioia.

765. Chi si affligge per un morto o per una cosa perduta o per una cosa passata, aggiunge dolore a dolore e soffre doppio danno.
766. Chi dà un dolore ad altri, soffre poi un dolore più grande; perciò chi teme il dolore, non deve dar dolore ad alcuno.
771. Quanti legami cari al cuore l'uomo via via stringe, altrettante spine di dolore gli si ficcano via via nell'anima.
773. I giorni terminano col tramonto e coll'aurora termina la notte; la gioia finisce sempre in dolore, e il dolore in gioia.
776. Qua suoni di liuto, là pianti e lamenti; qua concioni di dotti, là risse di ubriachi; qua una graziosa donna, là un corpo cadente per vecchiezza; non so se questo mondo sia fatto di ambrosia o di veleno.
779. Forse che nel mondo la gioia e il dolore sono due cose proprio diverse? Per mancanza di discernimento si stabilisce una netta separazione fra gioia e dolore. Ma v'è uno stato di mente, vittorioso, degli uomini di alto sentire, per il quale il dolore non è dolore e la gioia non è gioia.

domenica 23 maggio 2010

Mille sentenze indiane - Pregi e Difetti

756. Dei pregi degli uomini di fa conto, non della sola nascita; per un vaso di cristallo incrinato non si dà nemmeno un quattrino.
757. Più di un pregio, risalta in noi un difetto: si suole badare più alle macchie della luna che alla sua chiarità.
758. In un uomo ricco di cento pregi, il maligno scorge l'unico difetto; in un laghetto (ricco) di loti il cinghiale va a cercare solo il fango.
762. Un uomo senza pregi non intende chi ne ha; chi è dotato di pregi, è invidioso di altri che pure ne possiede; raro è l'uomo retto che, ricco di pregi, gode dei pregi altrui.

domenica 16 maggio 2010

Mille sentenze indiane - Dominio dei sensi

741. Col tenere a freno lo spirito, si tengono a freno anche tutti i sensi; quando il sole è ricoperto dalle nubi, sono ricoperti anche i suoi raggi.
742. Non tanto male può fare un affilato pugnale o un serpente calpestato, o un nemico pieno di rancore, quanto l'animo indisciplinato.
743. L'anima è la divinità, il santuario, la meditazione e la preghiera; senza l'anima, ogni cosa è vana; perciò si tenga a freno l'anima.
747. Chi è dominato dalle passioni non prende sonno nemmeno fra lenzuoli di lino; chi è privo di passioni, dorme placido anche in mezzo alle spine.
751. Risplende il lago, quando non c'è fango;
un'assemblea, se non vi seggon tristi;
la poesia, per suoni dolce e piana;
l'animo, se dai sensi si allontana.

lunedì 3 maggio 2010

Mille sentenze indiane - La Parola.

733. Pari a zanna d'elefante, la parola dei magnanimi, una volta pronunziata, non torna indietro; va e viene quella dei vili, come il collo della tartaruga.
735. Alla fine di un yuga vacilla il Meru, alla fine di un kalpa si scuotono i sette oceani; ma non vacillano mai i virtuosi dalla promessa fatta.
737. Durissimi sono i cuori degli onesti, io credo; ché non son per nulla trafitti dalle acute frecce delle parole dei malvagi.
738. La ferita di una freccia si cicatrizza; un bosco abbattuto dalla scure, ricresce; terribile è un'aspra parola; la ferita che essa fa, non si rimargina.
739. Avendo creato la punta della lingua dei malvagi, mortifera agli uomini, perché il signore Iddio creò inutilmente il fuoco e il veleno e il coltello?

sabato 24 aprile 2010

Una nuova Accademia ateniese aperta all'India





Uno dei pochi personaggi non indiani del movimento d'opinione critico dell'invasione aria dell'India è un greco, Nicholas Kazanas, che si è formato come indologo nella SOAS di Londra e al Deccan College di Pune, ed è direttore dal 1980 di un istituto culturale di Atene che si chiama Omilos Meleton, che dovrebbe significare 'moltitudine di studi', e che è incentrato sullo studio della filosofia platonica e vedantica, ma che offre anche corsi di sanscrito, mitologia comparata ed economia politica. Ecco la home page in inglese: 
http://www.omilosmeleton.gr/en/default_en.asp
C'è un settore dedicato ad articoli di filosofia, dove si trova anche un interessante confronto tra i dialoghi di Platone e le Upanishad, e un settore di indologia, ricco di articoli (anche di lettere polemiche rivolte all'immancabile Witzel) che propongono una visione nuova della protostoria dell'India e della cronologia dei Veda, maturata dopo aver scoperto che l'archeologia dell'India non mostra traccia di un'invasione aria...   

venerdì 9 aprile 2010

Mille sentenze indiane - La Verità

726. Per i magnanimi non c'è divario fra pensiero, parola, e azione; per i malvagi, pensiero, parola e azione differiscono l'uno dall'altra.
727. La falsità è la peggior malattia, il peggior tormento, il peggior nemico, il peggior veleno.
728. L'ago, diritto, serve a congiungere; la forbice, curva, a staccare; lascia pertanto le vie tortuose e tienti alla virtù.
731. Per la verità la terra si regge, per la verità risplende il sole, per la verità soffia il vento: ogni cosa è fondata sulla verità.

lunedì 15 febbraio 2010

L'India e le origini della filosofia

Nella pregevole introduzione, scritta da Roberto Calasso, a La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa, edizione italiana del fondamentale saggio di Sylvain Lévi di cui già ho scritto su questo blog, si leggono interessanti accenni alla posizione dell'India in una storia della filosofia che vada oltre la Grecia. Parlando del celebre Essai sur la nature et la fonction du sacrifice di Hubert e Mauss, debitori a Lévi di gran parte del materiale su cui costruire una teoria generale del sacrificio nelle varie culture umane, si osserva: "Esisteva dunque almeno una parte della terra in cui il sistema del sacrificio non era stato soltanto una complicata prassi liturgica, ma una articolata e ambiziosa teoria, che inevitabilmente tentava di dire ciò che è - assumendosi il ruolo che un giorno sarebbe stato della metafisica. E quella parte della terra era l'India dei Brāhmaṇa.[...] Se considerato da questo angolo, il saggio di Hubert e Mauss aveva il risultato di scardinare l'assetto acquisito della storia del pensiero (prima i greci, poi tutti gli altri - e soprattutto: nulla prima dei greci), in singolare convergenza con ciò che cinque anni prima si era compiuto nel primo volume della Allgemeine Geschichte der Philosophie di Deussen dove, invece di cominciare, come di regola, da Talete, si trattava del  Ṛgveda e dei Brāhmaṇa [...]"
Il volume di Deussen apparve nel 1915, eppure non sembra che la sua apertura abbia avuto molto seguito, a quasi cento anni di distanza. Ricordo ancora l'introduzione al manuale scolastico di storia della filosofia di Abbagnano, dove si negava al pensiero orientale un carattere pienamente filosofico, in quanto unito al religioso e non puramente 'teoretico'. Per poi assegnare, ovviamente, lunghi capitoli al pensiero cristiano tardo-antico e medievale... ripensandoci, si potrebbe sospettare che quando non si conosce qualcosa o non la si vuole trattare, si cerca di scartarla con motivazioni capziose. L'ignorare il pensiero indiano è frutto di pigrizia intellettuale e di provincialismo culturale, però ci sono alcune interessanti eccezioni in ambito filosofico. Una è quella dell'audace Atlante di filosofia recentemente pubblicato da Einaudi, opera di Elmar Holenstein, professore emerito dell'ETH di Zurigo, attualmente residente a Yokohama. E' un'opera sintetica che intende abbracciare, in alcune cartine con concise spiegazioni, il pensiero umano a livello mondiale. http://www.einaudi.it/libri/libro/elmar-holenstein/atlante-di-filosofia/978880619825
L'approccio è innovativo anche nell'uso dei termini che indicano le correnti filosofiche e religiose nelle lingue originali, in uno sforzo evidente di superare le lenti eurocentriche. Naturalmente non si può chiedere l'approfondimento a un'opera così vasta, ma per quanto riguarda l'India l'ho trovata di una straordinaria accuratezza da parte di un non specialista. 

Un altro esempio è l'opera di un giovane studioso francese di filosofia, Alexis Pinchard, che ho potuto conoscere personalmente nel mio soggiorno parigino del 2005-6. Si tratta della sua tesi, ormai da tempo pubblicata, Les langues de sagesse dans la Grèce et l'Inde anciennes. Si inserisce nella tradizione francese di Dumézil e Detienne, di studi indoeuropeistici e antropologici, affermando un'affinità tra pensiero indiano (già vedico) e greco antico sulle radici indoeuropee. Si veda una recensione qui:
http://www.bmcreview.org/2009/11/20091128.html

E qui si può anche acquistare online: http://www.erudist.net/fr/livre/?GCOI=26000100417580&fa=description

Naturalmente, Pinchard non si muoveva nell'ottica di una possibile origine indiana (sudasiatica) degli Indoeuropei, e quando gliene parlai rimase sconcertato. Mi chiese: i Greci venivano dall'India? Noi veniamo dall'India? Io gli dissi che sì, pensavo che era possibile, e che era più probabile che venissero dall'area indiana piuttosto che dalle steppe dell'Asia centrale, dove non c'era "beacoup de monde".

Se consideriamo la possibilità che i Greci venissero da un'area prossima a quella della civiltà vedica, questo potrebbe spiegare anche le misteriose affinità individuate da Pinchard... o da Marcello Durante, che aveva individuato formule poetiche molto simili nelle due culture, ipotizzando un influsso indoario sui protogreci sulle rive del Mar Caspio, prima delle rispettive migrazioni... 
Di fatto, le lingue stesse greca e sanscrita rivelano affinità straordinarie, e la lingua è il veicolo, lo strumento del pensiero. Mi ha spesso colpito la frequenza di termini astratti in entrambe le lingue, anche se forse con sfumature diverse: in un senso più oggettivo per i Greci, più soggettivo per gli Indiani. In Grecia gli astratti sono cose in sé, in India sono stati dell'essere cosciente, come la 'rishità' o la 'buddhità'. Di certo i diversi ambienti geografici e culturali hanno foggiato diverse linee di pensiero, ma le affinità rimangono, e le radici della filosofia greca potrebbero essere nelle remote regioni presso l'Hindukush, da cui un giorno i Danaoi (termine omerico per indicare i Greci) o Dānava (termine antico indiano e avestico per indicare un popolo nemico) si potrebbero essere allontanati per raggiungere le sponde del Mediterraneo...

P.S.: a proposito dei 'figli di Danu' rimando a un interessante articolo di D. Frawley, Vedic Origins of the Europeans: The Children of Danu http://r2dnainfo.blogspot.com/2010/01/vedic-origins-of-europeans-children-of.html, ricco di informazioni e di teorie stimolanti anche se da passare al vaglio.






domenica 24 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - Virtù - 2

710. Dall'acqua nasce il fango, e coll'acqua si deterge; dal cuore nasce la colpa, e col cuore si purifica.
712. Guarda rettamente colui che guarda alla donna altrui come alla propria madre, ai beni altrui come a una zolla di terra, a tutte le creature come a sé stesso.
715. Non aver procurato l'altrui dolore; non essersi inchinato ai malvagi; non aver abbandonato il sentiero dei buoni: sembra poca cosa, ed è molto.
718. Il virtuoso, anche piombato nella sventura, non perde il proprio carattere; la canfora, toccata dal fuoco, odora anche di più.
722. Come il latte è di un solo colore, per quanto di più colori sieno le vacche, così nei vari aspetti della virtù una sola è la verità suprema.

domenica 17 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - Virtù

685. Non si faccia ad altri ciò che sarebbe sgradito a noi stessi: questa è, in compendio, la legge morale; ogni altra legge procede ad libitum.
686. Colui che si addolora vedendo creature addolorate o che si allieta vedendo creature liete, conosce a fondo la Legge.
690. Con grande sforzo si spinge un macigno in salita, con facilità si fa ruzzolare lungo il pendio di un monte; così è dell'animo nostro rispetto alla virtù e al peccato.
691. Non desiderare ciò che è d'altri; esser benevoli verso tutte le creature; aver fede nel frutto delle azioni - si operi avendo sempre in cuore questo triplice precetto.
709. Se tu porti il bastone, la testa rasa o la treccia, se dimori in una caverna, ai piedi di un albero, su di una rupe, se leggi i purâṇa o i Veda, il Siddhânta o i Tantra, tutto ciò non serve a niente, se non hai puro il cuore.

venerdì 15 gennaio 2010

Arancia, ovvero l'inclinazione dell'elefante


Oltre ai prestiti recenti come Avatar, è sorprendente quante parole di uso comune siano d'origine indiana (se non proprio sanscrita). Una di queste è arancia o arancio. Secondo il "Vocabolario etimologico della lingua italiana" di O. Pianigiani, viene dal basso latino arangia e aurantia, "accostato per etimologia popolare al lat. AURUM, oro: dall'arab. NARANGI =  pers. NARANG' e questo dal sscr. NÂGA-RANG'A, che propr. vale inclinazione dell'elefante ossia frutto favorito dagli elefanti. La N iniziale scambiata per l'articolo UN venne omessa come in Anchina per Nanchina. Dagli arabi la voce passò nella Spagna e da questa nelle altre lingue romanze."
Ora, in sanscrito nāgaraṅga- significa davvero 'arancio', nel senso dell'albero. Ed è vero che nāga- può indicare l'elefante, ma anche il serpente, alcune piante, il piombo, e altro ancora. E raṅga- viene sì dalla radice rañj-, che può voler dire 'essere affetto, eccitato, deliziato da', ma anche 'essere colorato, arrossarsi'. E infatti il primo significato di raṅga- è 'colore, tinta', poi 'luogo di pubblico divertimento, teatro, arena', ma che voglia dire 'inclinazione' non risulta. E non ho trovato nemmeno conferma che gli elefanti siano particolarmente inclini a mangiare arance. E allora, forse conviene percorrere altre strade. Il senso di 'colore' è molto verosimile considerato che il frutto dell'arancio si distingue prima di tutto per il suo colore così caratteristico e luminoso (tanto che, come già visto, in latino è stato deformato in aurantia, aurantium, e in francese diventa orange, sempre richiamando l'oro). Allora, 'l'albero che ha i frutti del colore del nāga', ma in che senso? Non certo nel senso dell'elefante. Forse del serpente?
E' vero che il 'Golden Tree Snake' in India presenta dei segni rossi-arancioni (http://en.wikipedia.org/wiki/Chrysopelea), ma sembra un po' poco. Tuttavia, abbiamo accennato che alcune piante sono chiamate nāga- (forse perché abitate da serpenti?) e in particolare  - osserva il dizionario di Monier-Williams - la Mesua Roxburghii e la Rottlera Tinctoria.


La prima (qui a sinistra), diffusa in India, Nepal e Shri Lanka, è detta anche nāgakesara-, tradotto in inglese 'Cobra's saffron', infatti i suoi fiori hanno molti pistilli di color giallo zafferrano, con petali bianchi come quelli del fiore dell'arancio
(http://www.flowersofindia.net/catalog/slides/Nag%20Kesar.html).
La seconda è una pianta più tipica del sud-est dell'India, ma come dice il nome, è usata per la tintura delle stoffe, dando un colore giallo dorato usato già dall'antichità per colorare gli abiti 'color zafferano' dei religiosi (http://www.griffindyeworks.com/store/dyes-natural-dyes-and-extracts-c-1_3/kamala-extract-p-57: l'esempio qui in basso a destra).

Il nome comune in India per questa tintura è kamala, che in sanscrito, secondo Monier-Williams, in un testo indica un'arancia. Non solo, kamalā (a volte pronunciato komala o komola) si trova in assamese, bengali e oriya per indicare l'arancia
(http://www.uni-graz.at/~katzer/engl/Citr_sin.html).
Questo potrebbe suggerire che in India il colore dell'arancia sia stato associato al colore dello 'zafferano del serpente' o della tinta kamala della Rottlera (detta anche 'orange kamala'
http://www.flickr.com/photos/91314344@N00/2642064030/ ), e quindi sia stato chiamato 'che ha il colore del(l'albero) Nāga': nāgaraṅga (probabilmente indicando prima il frutto che l'albero). Da questa forma, dovrebbe essere derivata una semplificata, nāraṅga-, ben attestata anche in sanscrito per indicare l'arancio, e ancora usata in hindi per il frutto, al femminile (nāraṅgī). Da questa forma di tipo pracrito (della lingua parlata) è sorta chiaramente quella persiana nārang, che si è trasmessa poi all'arabo nāranj, e da lì all'Europa, alla naranja spagnola e alla nostra arancia. Perciò, le illazioni su un'origine non indoaria (dravidica o altro) del termine appaiono ingiustificate; comunque non ci sono dubbi sull'origine indiana del nome, e pare certo che venga originariamente dall'India il frutto stesso, più precisamente dall'India nordorientale o sudorientale, dove diverse varietà sono state sfruttate da almeno 7000 anni (http://www.buzzle.com/articles/history-of-orange-fruit.html).

Per concludere, in questi giorni in cui le arance sono diventate, in Calabria, una sorta di 'pomi della discordia', la storia di questo nome e di come si è trasmesso dall'India insieme al frutto può farci ricordare come l'umanità sia unita da antichi vincoli, suggellati dall'universale amore per ciò che è buono, come la polpa dell'arancia, e bello, come il suo colore...






domenica 10 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - Cupidigia

654. Tutta la gente va errando, salita sul carro del desiderio, che è aggiogato ai cavalli-sensi e spinto dall'auriga-cupidigia.
656. Tu non conosci il vero, o Cupidigia! sei un fanciullo difficile a contentare, un fuoco insaziabile; né distingui tra ciò che è agevole e ciò che è malagevole ad ottenere.
657. Se colui che aspira alla redenzione provasse la centesima parte delle pene che sopporta questo stolto per l'avidità di ricchezza, sarebbe già redento.
660. Il volto si copre di rughe, il capo è segnato di canizie, le membra si afflosciano... Sola la cupidigia resta sempre giovane.
661. Te, ventre, io lodo, poiché sei pur soddisfatto di qualche legume; ma non te, o cuore maledetto, ché non sei sazio nemmeno di cento e cento desideri!

 

martedì 5 gennaio 2010

Sanscrito. Quella lingua perfetta che ha inventato "Avatar"

Sulla prima pagina pagina della cultura di ieri de "la Repubblica" è apparsa una presentazione del nuovo dizionario di sanscrito di cui ho parlato poco fa, con citazioni del Prof. Sani:
Come si evince dal titolo, si mostra l'attualità del sanscrito a partire dal titolo "Avatar" dell'ultimo kolossal di Cameron. In effetti 'Avatar' è una delle parole di origine sanscrita che ha avuto più fortuna. Già usata ampiamente nel francese colto per dire 'incarnazione, metamorfosi' (spesso riferito a concetti astratti), si è affermata recentemente nel mondo virtuale come identità fittizia, una sorta appunto di emanazione dell'individuo che agisce in rete. Ed ora c'è il titolo del film di fantascienza, in un contesto di incarnazione più concreta, di ingresso in un altro corpo.
Il sanscrito Ava-tāra- significa 'discesa' o 'apparizione' di una divinità. Ava- è una preposizione che significa 'via, giù', tāra- viene dal verbo tṝ- (tarati) 'attraversare, raggiungere una meta', ed esiste anche il verbo ava-tṝ- (avatarati) 'scendere in, discendere (come divinità), incarnarsi, arrivare a, fare la propria apparizione'.


Come è noto, il concetto si applica principalmente a Vishnu, il Preservatore, e ai suoi dieci Avatāra (nell'immagine a sinistra) che appaiono per difendere il Dharma, l'ordine cosmico-sociale, ripercorrendo le varie fasi della mitologia dei Purāṇa: dal Diluvio dove agisce Matsya, il pesce che salva il progenitore Manu dalle acque, fino all'apocalittico Kalki, guerriero su un cavallo bianco che pone fine all'età degenerata del Kali Yuga in cui ci troviamo, per reinstaurare il Satya Yuga, età della virtù. Gli Avatāra più venerati in India sono certamente Rāma figlio del re Daśaratha di Ayodhyā, a cui è legato l'epos del Rāmāyaṇa, e Krishna re degli Yādava, ben presente nel Mahābhārata, e che si manifesta nel pieno della sua natura divina nella Bhagavadgīta, il 'Canto del Beato' in cui espone ad Arjuna, prima della battaglia, i principi dello Yoga.
Si tratta di due personaggi probabilmente storici, il primo vissuto intorno al 2000 a.C. (epoca che corrisponde al passaggio tra Tretā e Dvāpara Yuga) e il secondo nel XV sec. a.C., quando possiamo situare la battaglia del Mahābhārata (al passaggio tra Dvāpara e Kali Yuga) e la scomparsa sotto il mare (documentata archeologicamente) di Dvārakā, la capitale di Krishna. Apparentemente, grandi eroi, esempi viventi del Dharma, vissuti in epoche cruciali, sono stati assunti come Avatāra. Persino il Buddha, Siddhārtha Gautama del clan Shakya, fondatore di un movimento spirituale fortemente osteggiato dai brahmani conservatori, è stato assunto come Avatāra di Vishnu nei Purāṇa, evidentemente per inglobarlo nel sistema brahmanico.
Ma anche in tempi più recenti sono stati riconosciuti degli Avatāra divini, come Chaitanya, maestro della Bhakti (devozione) vissuto in Bengala a cavallo tra XV e XVI secolo, punto di riferimento degli 'Hare Krishna', oppure Ramakrishna, importante maestro spirituale del XIX secolo (vedi
http://www.eng.vedanta.ru/library/prabuddha_bharata/ramakrishna_the_greatest_of_avataras_june04.php).
O anche il contemporaneo, e ben noto, Sathya Sai Baba (http://www2.cruzio.com/~lobsta/jgm-avatar.html).
Nel passaggio dall'India all'Occidente, il termine sembra essere passato da Dio all'uomo (o all'io): infatti se in India solo il Dio supremo, o comunque una divinità, può avere Avatāra, oggi nel mondo virtuale ognuno può creare i suoi Avatar...

D'altronde, un significato meno noto del termine sanscrito avatāra- si trova nei titoli di alcune opere, come il Madhyamakāvatāra di Chandrakīrti (maestro della scuola buddhista della Via di Mezzo), che viene tradotto "Introduzione alla Via di Mezzo", intendendo evidentemente avatāra- come 'introduzione, entrata', infatti l'opera vuole essere un commento al testo di Nāgārjuna sulla Via di Mezzo (tra eternalismo e nichilismo) (http://www.scribd.com/doc/24563026/Chandrakirti-Madhyamakavatara-commented).
O ancora un'altra opera della stessa scuola, il Bodhisattvachāryāvatāra di Shāntideva, "Introduzione alla pratica dell'essere del risveglio", più noto in ambito accademico come Bodhicāryāvatāra "Introduzione alla pratica del risveglio", trattato che spiega come sviluppare le qualità di un Bodhisattva, un aspirante al completo risveglio spirituale (una traduzione italiana a http://www.samantabhadra.org/articles.php?lng=it&pg=36).
Si tratta di due opere molto importanti nel curriculum di studi del Buddhismo tibetano, e insegnate e commentate anche in Occidente, anche se sulla base della traduzione tibetana invece che del testo sanscrito, benché comunque si usino le forme originali sanscrite per i titoli e per alcuni termini 'tecnici' (come Buddha, Bodhisattva, Bodhicitta...).
















venerdì 1 gennaio 2010

Mille sentenze indiane - La speranza


648. Colui, che è stato fatto schiavo dalla speranza, è schiavo di tutti gli uomini; colui che ha fatto sua schiava la speranza, fa suo schiavo tutto il mondo.

651. Una festa, quando già si celebra, non è così bella come una festa imminente; la luna, nel levarsi a sera, risplende ben altrimenti che nell'albeggiare.

652. Meravigliosa catena è la speranza, dalla quale legati, gli uomini corrono innanzi; sciolti, se ne stanno fermi come storpi.

653. Grande è la montagna, più grande il mare, più del mare è grande il cielo, più del cielo il brahma, l'anima del mondo; più ancora del brahma, la speranza.