domenica 15 febbraio 2009

L'incontro dell'Occidente con la cultura sanscrita




L’Europa ebbe i primi significativi incontri col sanscrito nel XVI secolo, quando viaggiatori curiosi come il mercante fiorentino Sassetti scoprirono le sorprendenti somiglianze tra i numeri sanscriti e i numeri latini o greci, e i rispettivi termini di parentela: per esempio, latino duo, sanscrito dvā, latino tres, sanscrito trayas, latino mater, sanscrito mātā(r).
Fu solo però in seguito alla colonizzazione britannica del XVIII secolo che il sanscrito fu conosciuto più dettagliatamente dagli europei: un documento esemplare di questo evento culturale è il discorso che Sir William Jones (qui ritratto), orientalista formatosi ad Oxford e giudice del Tribunale Supremo di Calcutta, fondatore della “Royal Asiatic Society of Bengal”, tenne nel 1786, in cui dichiara:
“Il sanscrito, quale che sia la sua antichità, è di una struttura meravigliosa, più perfetta del greco, più vasta del latino e più squisitamente raffinata sia dell’uno che dell’altro; inoltre, presenta rispetto ad entrambe sia nelle radici dei verbi che nelle forme grammaticali un’affinità così stretta che è impossibile considerarla casuale...”

Parole che dovevano suonare sconcertanti ai classicisti dell’epoca, e che segnano l’inizio dell’indoeuropeistica, ovvero di quella scienza che confronta le lingue della famiglia indoeuropea, così chiamata perché si trova tra l’India e l’Europa, e nella quale il sanscrito ha un’importanza fondamentale per la sua antichità e ricchezza lessicale. Questo è il motivo per cui l’insegnamento del sanscrito è diffuso nelle facoltà di Lettere anche al di fuori degli ambiti orientalistici, nel contesto della linguistica storica comparata. Nonostante ciò, rimane una lingua ancora ampiamente ignorata, di cui circolano alcune parole ormai familiari anche al grande pubblico, come mantra, karma, avatāra, guru, yoga... ma di cui non si conosce la struttura, la storia, la straordinaria ricchezza di testi. Conoscere il sanscrito permette di accedere al cuore di una delle più grandi civiltà del mondo, quella indiana, unica per la sua attenzione ai valori dello spirito, e al contempo interessata ai più vari campi dello scibile e dell’arte, dalla medicina alla matematica, dalla logica alla musica, dall’astronomia alla politica. I generi letterari in sanscrito comprendono inni religiosi e poemi epici, codici di leggi e opere filosofiche, poemi di cosmologia e storia tradizionale, raccolte di novelle, trattati scientifici e grammaticali, manuali di meditazione, opere drammatiche e composizioni liriche.
Quando l’antica cultura dell’India fu meglio conosciuta in Europa, a cavallo tra Settecento e Ottocento, in particolare in Germania e in Francia, avvenne quello che è stato chiamato un ‘Rinascimento orientale’, stimolato non, come quello del Quattrocento e Cinquecento, dalla riscoperta degli antichi Greci e Romani, ma appunto dalla scoperta sostanzialmente inedita delle civiltà orientali, in particolare di quella indiana, vista spesso come l’origine remota della stessa civiltà europea, idea che oggi possiamo riprendere oggi in considerazione su basi non solo linguistiche, ma anche archeologiche e genetiche.
Nel corso dell’Ottocento, l’interesse per il pensiero indiano toccò filosofi come Hegel e soprattutto Schopenhauer (grande estimatore delle Upaniad, i testi metafisici dei Veda), nonché gli americani Emerson e Thoreau, influenzò profondamente la Società Teosofica e in generale l’esoterismo, mentre in ambito accademico, grazie a personalità come Max Müller, si sviluppava la disciplina indologica per mezzo della conoscenza della lingua e dei testi più importanti, fino alla redazione dei dizionari più usati ancora oggi, ovvero quello tedesco di Böthlingk e Roth e quello inglese di Monier-Williams, la cui prima edizione data al 1899.
Nel Novecento, profondi estimatori della civiltà indiana furono importanti intellettuali come Hermann von Keyserling (nella foto a sinistra), grande viaggiatore, autore del Diario di viaggio di un filosofo, bestseller del primo dopoguerra, e fondatore nel 1920 a Darmstadt della ‘Scuola della Saggezza’, e naturalmente Hermann Hesse, che immortalò la sua conoscenza dell’India nel sempreverde Siddharta, apparso nel 1922. Appassionati studiosi della sapienza indiana furono noti esoteristi e teorici della Tradizione come René Guénon, o insigni accademici come lo storico delle religioni Mircea Eliade e l’orientalista italiano Giuseppe Tucci, celebre per le sue esplorazioni in Nepal e Tibet. Si data però agli anni Sessanta l’esplosione di un interesse di massa per l’India e il suo mondo ‘alternativo’ al materialismo occidentale, fatto di maestri spirituali e pratiche meditative, che ha portato ad una vasta diffusione in Europa e America delle tecniche yoga e di vari movimenti spirituali di matrice indiana. Anche nella galassia del più recente movimento ‘New Age’, elementi della tradizione indiana e l’uso di termini sanscriti sono molto presenti, benché spesso in modo superficiale o semplicistico. Si può dire che quel ‘Rinascimento orientale’ inaugurato da un’élite intellettuale nel periodo romantico, si sia diffuso a livello di massa e ‘democratizzato’, diventando però un fenomeno piuttosto sotterraneo e scarsamente considerato proprio dall’establishment intellettuale. Tuttavia, abbiamo un episodio recente di riscoperta della tradizione indiana (e in generale orientale) da parte di un giornalista di fama nel caso di Tiziano Terzani, ed anche l’illustre filosofo Remo Bodei ha sostenuto recentemente il valore del pensiero indiano, incoraggiandone una maggiore conoscenza in Occidente.

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