mercoledì 20 giugno 2012

Le sorprendenti affinità tra la Roma antica e l'India




Recentemente, un amico aveva 'postato' delle osservazioni a proposito della dieta dei legionari romani, sostenendo, oltre al fatto che era essenzialmente vegetariana, che non mangiavano carne bovina per la sacralità del bue. E un sito di argomento archeologico effettivamente conferma questo dato. Comunque, ciò mi ha riportato alla mente alcune affinità che avevo notato tra Roma antica e India, tra cui l'uso di un velo rosso per il matrimonio. Andando a guardare il rito nuziale romano, ho scoperto che il matrimonio più ritualizzato e arcaico era la confarreatio, riservata ai patrizi, e infine soltanto ai Flamines, quei sommi sacerdoti che Dumézil aveva confrontato (anche etimologicamente) con i Brahmani indiani. Ebbene, nella confarreatio (vedi anche questo saggio), oltre al flammeum, velo rosso fuoco (o arancio), che ritroviamo nel matrimonio indiano (vedi foto sopra), lo sposo e la sposa compivano insieme tre giri intorno all'altare verso destra, tanto che questo rito era chiamato dexteratio. Ora, in India questo rito si chiama pradakṣiṇa, termine che mostra la stessa radice indoeuropea (*daks-/deks-), e che significa appunto girare procedendo verso destra. Oggi (vedi qui) si compiono quattro giri intorno al fuoco sacro che funge da luogo delle offerte nel rito vedico, di cui tre guidati dallo sposo e uno dalla sposa. D'altronde, ancora nella Grecia contemporanea si compiono tre giri dell'altare della Chiesa durante il matrimonio (benché in senso antiorario, rito condiviso dai russi ortodossi), così come si usa ancora un velo color fuoco (vedi questa pagina, e secondo il saggio già menzionato, come c'era da aspettarsi, il velo rosso era usato anche nel matrimonio della Grecia antica). Tornando a Roma, momento clou della cerimonia era la dexterarum iunctio (che appare qui sotto), ed anche nella cerimonia indiana l'unione o 'afferrarsi' delle mani destre (paṇi-grahaṇa) è un momento cruciale del rito. Altra analogia, il nome confarreatio allude alla condivisione di una focaccia di farro in onore di Iuppiter Farreus da parte degli sposi, ed anche nel rituale indiano un momento è quello dello scambio di un boccone di cibo dai resti delle offerte (anna-prāśana).


Ora, se molti di questi rituali possono sembrare abbastanza scontati (ma bisognerebbe trovare un altro parallelo che li presenti tutti) quello della dexteratio appare veramente significativo, perché l'uso di girare tre volte in senso orario intorno a un oggetto o una persona sacri è qualcosa di pervasivo in India, è un gesto fondamentale, presente sia nell'Induismo sia nel Buddhismo. A questo proposito, occorre citare un altro contesto antropologico, quello funerario: in una voce molto interessante di un'enciclopedia di religione ed etica di James Hastings, intitolata 'circumambulation', troviamo che nella Tebaide di Stazio, VI.215-224, durante i riti funebri in onore del figlio di Licurgo, i guerrieri girano prima tre volte verso sinistra (sinistro orbe... ter curvos egere sinus), poi, a un ordine dell'augure, tornano girando verso destra (dextri gyro... hac redeunt). Ora, un rito analogo era prescritto nello Śatapatha Brāhmaṇa (II.6.1.15), in occasione delle offerte agli antenati defunti: l'officiante compie prima tre giri verso sinistra (apasalavi), quindi tre verso destra (prasalavi), a simboleggiare il movimento verso il mondo degli antenati e il ritorno a questo mondo.
D'altronde, anche la circumambulatio urbis dei Luperci era una corsa attorno a Roma in senso antiorario, e ancora oggi a Roma si compiono circoambulazioni nel rito cattolico della Pasqua (si veda qui), ed anche in India si usava circoambulare la città in certi contesti.
Abbiamo detto che il matrimonio per confarreatio si ridusse essenzialmente ai flamines, e in particolare il Flamen dialis, sommo sacerdote di Giove, doveva nascere da un matrimonio celebrato per confarreatio (come anche il Rex sacrorum e le Vestali). Ora, il termine flāmen è stato paragonato (a partire almeno da Dumézil) a quello di brahman o brāhmaṇa da un proto-indoeuropeo *bhlagh-mēn, così come il sacerdozio detto flāmonium è stato paragonato al brāhmaṇyam da *bhlāgmonyom. Ma a parte queste dubbie ipotesi linguistiche, ci sono dei suggestivi paralleli tra le due figure, come nota Bernard Sergent in Les Indo-Européens, p.376: il flamen dialis non può giurare, il brahmano non può essere chiamato a testimone, il rapporto con l'ambito militare è proibito per entrambi, i testi menzionano nei due casi divieti concernenti il cavallo, il cane, l'uso dell'olio; sono loro proibiti l'avvicinarsi al rogo funebre, la consumazione di bevande fermentate e di carne non cucinata. Non potevano stare nudi, e ciò si estende alla sposa, la flāminicā e la brāhmaṇī, che gioca un ruolo essenziale di collaboratrice in tutta l'attività cultuale dello sposo. Si può essere flamen dialis o brahmano da giovane, e ciò esclude dalla potestà paterna. Il colore del loro costume e di diversi simboli è il bianco, che secondo Dumézil è il colore specifico della prima funzione in numerosi testi.
D'altronde, il suffisso -men, che ritroviamo anche in numen 'potere divino' o lumen 'luce' o carmen 'poesia, incantesimo', è parallelo a quello indiano -man, che oltre che in brahman si trova anche ad esempio in śarman 'rifugio', varman 'armatura', karman 'azione', manman 'pensiero, preghiera'.  

Ancora, vorrei segnalare la somiglianza tra latino e antico indiano di alcuni termini fondamentali, come ignis, 'fuoco', aind. agnis, lat. vox 'voce, parola', aind. vāk 'linguaggio, voce, parola', lat. vīta, aind. jīvitam 'vita', lat. deus, aind. devas 'dio', lat. mens, aind. manas 'mente', lat. medius 'medio' aind. madhyas, lat. iuvenis, aind. yuvan 'giovane', lat. iugum, aind. yugam 'giogo', lat. dōnum, aind. dānam 'dono', lat. domus, aind. damas 'casa', lat. concha, aind. śaṅkha 'conchiglia', lat. vertit, aind. vartate, 'volge, gira'...
Come si può vedere dalle terminazioni di molti termini, il latino condivide con il sanscrito la finale -s per i nomi maschili (quando la parola è isolata in sanscrito è aspirata), e la -m per i neutri, che ritroviamo anche nell'accusativo in entrambe le lingue. In latino arcaico (e in falisco) abbiamo una desinenza singolarmente simile all'antico indiano: il genitivo in -osio, che si trova nel Lapis Satricanus (Popliosio Valesiosio), e corrisponde all'aind. -asya. Rispetto ad altre lingue indoeuropee, risalta anche che il pronome riflessivo suus è perfettamente corrispondente al sanscrito sva-.
 
E ci sono anche dei nomi propri in latino che potrebbero spiegarsi con termini o nomi indiani: Marius fa pensare all'aind. maryas 'giovane uomo', Gaius al nome proprio Gaya, Remus al celebre nome Rāma... Infine, notevoli anche i paralleli sanscriti dei nomi delle divinità: Iuppiter, Iovis è certamente affine a Dyaus Pitar-, il Padre Cielo (greco Zeus); Iūno è collegata alla radice della giovinezza (yūnī è 'la giovane, forte, sana' in aind.); Venus corrisponde all'aind. vanas- 'amabilità, desiderio'; Minerva è fatto derivare da menes-va- confrontabile coll'aind. manasvat- 'pieno di spirito'. Neptūnus è stato accostato da Dumézil ad apāṃ napāt, il 'discendente delle acque', divinità presente anche nell'Avesta. Iānus, dio dei 'passaggi', degli inizi e delle transizioni, corrisponde al termine antico indiano yāna- 'che conduce, viaggio, veicolo'. Il dio/dea dei pastori Pales richiama l'antico indiano pāla- 'guardiano, pastore', da cui gopāla 'guardiano di vacche, mandriano', tipico epiteto di Kṛṣṇa nel contesto bucolico di Vṛndāvana, anche se secondo alcuni Pales deriva da palea 'paglia', che ha un parallelo nell'aind. pala-, dallo stesso significato.   

Da tutto ciò non vorrei concludere che i Latini avessero un rapporto particolarmente diretto con gli Indiani, storicamente arduo da sostenere, ma possiamo dire che hanno preservato in modo particolarmente fedele, per certi aspetti, l'eredità 'indoeuropea', le cui origini e vie devono essere chiarite...