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venerdì 11 marzo 2011

Un nuovo libro sull'archeologia dalla Mesopotamia all'Indo

Recentemente è apparso un volumetto molto denso e stimolante sul quadro archeologico di un'area che va dalla Mesopotamia all'India: "A oriente di Sumer". L'autore è un archeologo italiano che ha partecipato a scavi in Iran, Pakistan, India, Nepal, Turkmenistan... collaboratore tra l'altro di un importante specialista di archeologia harappana, Kenoyer. Qui si trova il suo curriculum.

Il testo descrive moltissime civiltà, dai Sumeri agli Elamiti, dalle culture dell'Iran orientale a quelle di Battriana e Margiana, fino alla valle dell'Indo. Usa una singolare definizione di 'Asia meridionale', che invece di indicare il subcontinente indiano (come nell'uso inglese di 'South Asia') ingloba le regioni aride o semiaride di Mesopotamia, penisola araba, altopiano iranico, rilievi afghani e valle dell'Indo. Affronta molte interessanti questioni teoriche sulla natura degli stati protostorici, con osservazioni molto acute sulla civiltà harappana. A proposito dei sigilli di steatite nota (p.125) che, di forma, struttura e uso standardizzato, ricordano più i nostri documenti di identità  che i cilindri mesopotamici. Questo concorda con quello che si dice nel Mahābhārata (III.654, ed. Bombay): "chi è senza sigillo non esce né entra nella città di Vṛṣṇyandhaka". E Vidale aggiunge a proposito dei simboli animali: "Si pensa che l'animale segnalasse subito anche a chi non sapeva leggere la principale identità sociale del portatore". A proposito dell'oggetto davanti all'unicorno, afferma che "resiste a ogni tentativo di comprensione". Invito a leggere un mio post precedente sull'argomento, che riporta la sua convincente identificazione (da parte di Mahadevan) con un filtro e bacino per il Soma. Ma tornando agli animali simbolici, colpisce l'osservazione che i sigilli indiani trovati in Iran, nel Golfo Persico e in Mesopotamia recano solo l'immagine del gaur (bisonte indiano), il che fa pensare "che gli animali identificassero precisi ruoli sociali". E suppone che, essendo il simbolo più comune sui sigilli,
l'unicorno forse indicava una responsabilità e competenza comune nelle città del III millennio: quella degli amministratori di dettaglio dell'economia urbana. Già molti anni fa, del resto, Carl G. Lamberg-Karlovsky aveva ipotizzato che le figure animali sui sigilli comunicassero alla popolazione urbana delle precise coordinate occupazionali o sociali: «[...] La civiltà dell'Indo presenta un considerevole numero di elementi che suggeriscono la presenza dei gruppi di lignaggio endogami strutturati su linee occupazionali tanto importanti alla formazione delle caste»(pp.125-7).  
Tra questi elementi c'è certamente la divisione delle città in settori distinti, racchiusi da recinzioni murarie con specifici accessi (come osserva a p.118 per Harappa):
La capacità di classificare, accorpare e segregare le comunità urbane come fece la civiltà dell'Indo dagli inizi del III millennio a.C. presuppone un forte consenso collettivo, garantito solo da una pervasiva ideologia comune del vivere sociale. [...] queste società si basavano su un sistema chiaramente espresso di segmentazione sociale [...] Non dobbiamo cercare nelle società del Bronzo dell'India una struttura castale formalizzata come quella dell'Induismo, quanto piuttosto considerare la possibilità che entrambe le forme (quella "corporata" dell'Indo e quella delle caste di età storica) derivino da un antenato comune di incommensurabile influenza storica. (pp.142-3)
Si suppone quindi una radice della segmentazione sociale in India che continua tra la civiltà harappana e quella dell'India storica. E si intravede un'ideologia unificante analoga al Dharma del Brahmanesimo classico, che costituì la struttura portante della società indiana attraverso i secoli. La divisione in caste non deriva quindi da un'invasione di ariani razzisti, ma da una tradizione antichissima, che dimostra che non ci sono state nella civiltà dell'India innovazioni radicali portate da invasori, prima del dominio islamico e poi britannico. Gli stessi studi genetici sulle caste attuali hanno mostrato l'origine autoctona di questo sistema, che porta a un potere politico 'eterarchico', cioè "condiviso tra diverse famiglie e comunità urbane, sulla base di precise regole istituzionali." (p.142)
Questa suddivisione del potere costituiva naturalmente un limite al potere centrale, ed è questa caratteristica che rese la civiltà indiana meno monarchica di quella egizia, mesopotamica o cinese. Il re c'era ed aveva un ruolo fondamentale, ma il suo potere era limitato dall'aristrocrazia guerriera (gli Kṣatriya) e dai Brahmani. Ed era inserito nell'ambito del Dharma, in un sistema di rapporti sociali non modificabili arbitrariamente, ma tramandati sotto la custodia dei Brahmani, gelosi della loro autonomia e sostenitori della loro supremazia ideale nell'ordine sociale. Com'è noto, è un sistema molto simile a quello celtico, che si suddivideva in una classe intellettuale di druidi, bardi e 'vati', un'aristocrazia guerriera e il resto del popolo. E anche se nelle altre culture indoeuropee spesso mancava una forte élite sacerdotale, un'aristocrazia guerriera esisteva, dando origine a sistemi assembleari che si costituirono anche come repubbliche aristocratiche, per poi 'allargarsi' in alcune città greche in democrazie.
C'è da chiedersi se Kṣatriya e Brahmani fossero già presenti nella civiltà dell'Indo. Se seguiamo la tradizione indiana racchiusa nei Veda, nell'Epica e nei Purāṇa, c'erano sicuramente, divisi in Gotra (lignaggi) e in tribù. Il Ṛgveda, che può essere coetaneo con la tarda civiltà harappana, ci parla di Brahmani e Kṣatriya, e degli antichi Ṛṣi e re. 

 
Ceramica harappana


Ceramica greca geometrica

















Possiamo pensare che questa cultura aristocratica si diffuse nel terzo e secondo millennio in Asia centrale e in Anatolia (e con i Maryanni in gran parte del Vicino Oriente), nella Grecia micenea, nell'Europa centrale celtica (Halstatt) e in Italia. Portando con sé le lingue indoeuropee, sistemi legali e anche una mentalità sistematica e razionale, che derivavano dalla cultura dell'Età del Bronzo indoiranica. Vidale osserva che nei siti dell'Indo emerge "un forte interesse per la geometria e la simmetria, esteso dagli impianti urbani, forse orientati seguendo allineamenti astronomici, alle forme degli ornamenti di lusso" (p.122). E' notevole che un analogo interesse per la geometria e la simmetria si ritrovi nelle città-palazzo di Battriana e Margiana (civiltà dell'Oxus) che appaiono tra il 2500 e il 1700 a.C., spesso rettangolari, orientate verso i punti cardinali e protette da fortificazioni con torri angolari, oppure strutture ad anelli concentrici. Tali forme sono paragonate alla geometria dei coevi sigilli a stampo battriani, che riportano croci (magari con svastica al centro) e cerchi concentrici (vedi pp.81-85). E un analogo interesse per la geometria urbanistica troviamo in Grecia (dove abbiamo cittadelle fortificate sin dall'epoca micenea), presso gli Etruschi (pare per influsso greco) e infine presso i Romani (per influsso etrusco, ma continuando la mentalità geometrica-razionalizzante indoeuropea che i Romani realizzarono in modo sistematico). Simile attenzione per la geometria, con motivi ricorrenti come gli scacchi e lo svastika, troviamo nella ceramica dell'Indo, iranica, frigia e greca del cosiddetto 'periodo geometrico'. Forse possiamo ammettere una genealogia per queste affinità tra popoli parlanti lingue indoeuropee, che affonda nell'Età del Bronzo tra valle dell'Indo, dell'Amu Darya e dell'Hilmand, per poi spostarsi sempre più a ovest nel corso dei secoli.



Vidale, di fronte alla teoria dell'invasione aria dell'India, si pone con scetticismo. Scrive a pp.111-2:


Il nucleo di testi religiosi più antico, i Veda [...] erano stati datati dai filologi - su basi molto arbitrarie - intorno alla metà del II millennio. Religiosi e storici concordavano nel fissare a tale data gli eventi che traspaiono dagli inni del Rgveda e con essi un'ipotetica migrazione dall'entroterra afghano degli Arii, immaginaria e bellicosa popolazione di allevatori di lingua e cultura "indo-arie". Malgrado la tradizione non sia suffragata da alcuna prova archeologica, l'idea di questa primigenia invasione etnica sostiene ancora la fede religiosa sulla "purezza di sangue" di Brahmani e Kshatrya, i due ordini superiori delle caste indiane, che affermano, appunto, di discendere in linea diretta dagli Arii.
Purtroppo Vidale segue qui l'interpretazione capziosa del racconto vedico nel senso dell'invasione aria dall'esterno, ignorando apparentemente che la fede religiosa tradizionale non ammette questa invasione, e che se attualmente Brahmani e Kshatriya sostengono di discendere dagli Arii invasori c'è di mezzo lo zampino dei Britannici, che, sin dall'Ottocento, hanno diffuso in India come un dato di fatto la teoria invasionista. D'altronde, a p.131 riporta che "per molti il Rgveda non narrerebbe invasioni, quanto metafore religiose sulla pioggia e la fertilità ben collocabili nell'ideologia di gruppi pastorali nomadici". Questa è un'idea allegorizzante un po' estrema, non è che nel Ṛgveda non ci siano battaglie e spostamenti militari, ma avvengono all'interno delle pianure indiane. Inoltre anche l'identificazione della cultura rigvedica come puramente nomadica è capziosa, visto che include l'agricoltura e la presenza di edifici stabili (si leggano in proposito Bhagwan Singh, R.S. Bisht e S.P. Gupta).
Vidale continua dicendo che tra i nomadi centrasiatici di Andronovo, da identificare con gli indo-iranici per alcuni teorici, e i Medi loro supposti discendenti resta un abisso di mille anni, e che le ceramiche di Andronovo non sono mai state trovate lungo l'Indo.

Ancora una volta, dunque, l'archeologia smentisce la teoria dell'invasione centrasiatica, e anzi potrebbe aprire interessanti orizzonti di un movimento culturale dall'India verso ovest, fino all'Europa, le cui radici orientali sembrano rivelarsi sempre più chiaramente. 
  


Gonur Tepe, Margiana


  

  





lunedì 27 dicembre 2010

L'ardore e la storia - 2



 
Ora che ho finalmente tra le mani il pregevole libro di Calasso, posso fare una rettifica: non è che il nostro autore sia ignaro delle teorie alternative, piuttosto le liquida sommariamente, seguendo probabilmente Witzel, citato varie volte, anche se non a questo proposito. Scrive infatti Calasso (p.26):
"Da alcuni anni è in corso un'affannosa ricerca di ossa di cavallo da disseppellire nel Panjab. Brandite come armi improprie, dovrebbero servire a sgominare e disperdere gli aborriti Indoeuropei venuti da fuori, di là dal Khyber Pass, dimostrando che la loro novità - il cavallo - apparteneva già a quei luoghi. [...] Quanto ai guerrieri montati su carri con cavalli, non ve n'è traccia nei sigilli della civiltà dell'Indo."

Per guerrieri montati su cavalli (senza carri), bisogna aspettare i reperti di Pirak, nel Belucistan, successivi al 1800 a.C. (vedi qui per un'immagine). Come nota giustamente Calasso, l'uso vedico del cavallo, come in Medio Oriente e in Egitto nel II millennio a.C., è associato al carro, di cui il Nostro dice altrove parlando degli Ārya (pp.19-20): "Si muovevano periodicamente su carri con ruote provviste di raggi. Quelle ruote furono la grande novità che apportarono: prima di loro, nei regni di Harappa e Mohenjo-daro si conoscevano solo le ruote compatte, solide, lente."

Questo è un tipico mito della scuola invasionista: come si può vedere dalle due immagini sopra, a sinistra troviamo su una tavoletta convessa di Harappa il simbolo della ruota con raggi (vedi l'immagine con commento a questa pagina), che qui appare isolato, ma è usato comunemente nella 'scrittura vallinda'. A destra vediamo invece ruote giocattolo dai siti di età harappana Banawali e Rakhigarhi (nello stato indiano dello Haryana) con evidente indicazione di raggi, dipinti e in rilievo.

Secondo mito: l'assenza del cavallo nei siti 'harappani'. Qui a sinistra (dall'articolo di Michel Danino The Horse and the Aryan Debate) abbiamo una statuetta di terracotta da Mohenjo daro: anche se non particolarmente dettagliata (cosa normale per questo genere di manufatti), la lunghezza del collo, la figura slanciata, l'attaccatura della coda, la fanno identificare con un cavallo, come già fece Mackay nel 1943. Un altra figurina di terracotta con corpo e coda tipicamente equini è quella a destra, proveniente dal sito harappano maturo di Lothal nel Gujarat. Altri esempi si possono trovare nello stesso articolo (una piccola testa di cavallo tra pedine da gioco!) e nell'articolo di Rajaram Vedic-Harappan Gallery. Benché si tratti di poche raffigurazioni, questa sembra essere la norma in India prima del III sec. a.C., come osserva Danino nel già citato articolo: " “the first deliberate and conscious attempt of shaping a horse in durable material like stone was witnessed in the art of the Mauryas in India,” writes historian T.K. Biswas. Another historian, Jayanti Rath, commenting on the animals depicted on early Indian coins, remarks: “The animal world of the punch-marked coins consists of elephant, bull, lion, dog, cat, deer, camel, rhinoceros, rabbit, frog, fish, turtle, ghariyal (fish eater crocodile), scorpion and snake. Among the birds, peacock is very popular. The lion and horse symbols appear to have acquired greater popularity in 3rd century B.C.” "
Potremmo anche aggiungere che negli inni rigvedici l'animale che più ricorre e risalta come simbolo non è il cavallo, ma il toro (insieme alla vacca): Agni, Indra e altri dèi sono chiamati spesso 'tori' (vṛṣa), e questo concorda con la preponderante iconografia bovina dei sigilli harappani. Inoltre, quando i poeti-sacerdoti celebrano i benefattori, menzionano spesso doni di centinaia di vacche ma di pochi cavalli: ṚV VII.18.22-23 parla di 200 vacche e 4 destrieri offerti come ricompensa dal sovrano vittorioso Sudās... E il famoso sacrificio del cavallo (aśvamedha) era fatto solo dal sovrano che voleva celebrare il suo dominio universale...
D'altro lato, se è vero che il cavallo diventa più frequente nel periodo tardo harappano (successivo al 1900 a.C.), si tratta proprio del periodo in cui situo la maggior parte della redazione del Ṛgveda.

Ma a parte le raffigurazioni, abbiamo la testimonianza concreta di ossa di cavallo, che secondo Calasso sono cercate affannosamente dai negatori dell'invasione... veramente, sono piuttosto gli invasionisti che sembrano affannarsi a negare l'esistenza di tali ossa, come risulta dal racconto di Danino a proposito di Hallur in Karnataka, dove sono state trovate ossa di cavallo datate tra il 1500 e il 1300 a.C., un po' troppo presto per un sito dell'India meridionale:

"the excavation (in the late 1960s) brought out horse remains that were dated between 1500 and 1300 BCE, in other words, about the time Aryans are pictured to have galloped down the Khyber pass, some 2,000 [km.] north of Hallur. Even at a fierce Aryan pace, the animal could hardly have reached Karnataka by that time. When K.R. Alur, an archaeozoologist as well as a veterinarian, published his report on the animal remains from the site, he received anxious queries, even protests: there had to be some error regarding those horse bones. A fresh excavation was eventually undertaken some twenty years later — which brought to light more horse bones, and more consternation."

Ma, come scrisse l'archeologo S.P. Gupta nel suo The Indus-Saraswati Civilization, pp.159-163, Bhola Nath, "the most leading archaeo-zoologist of India" già nel 1968 identificò alcune delle ossa da Lothal (sito harappano del Gujarat) come di cavallo domesticato: Equus caballus Linn. Lo stesso riconobbe ossa di cavallo ad Harappa (livello maturo) e a Ropar nel Panjab. Nel 1974 A.K. Sharma identificò le ossa di Surkotada nel Kacch come di cavallo, e l'esperto di reperti equini ungherese Sándor Bökönyi confermò nel 1991 tale identificazione. Danino riporta anche il caso di Mahagara, vicino ad Allahabad, quindi in un'area molto più orientale, dove test al carbonio 14 sulle ossa di cavallo lì rinvenute hanno offerto datazioni tra il 2265 a.C. e il 1480 a.C. E il caso della valle del Chambal in Madhya Pradesh, dove M. K. Dhavalikar oltre alle ossa trovò una figurina di giumenta: "The most interesting is the discovery of bones of horse from the Kayatha levels and a terracotta figurine of a mare. It is the domesticate species (Equus caballus), which takes back the antiquity of the steed in India to the latter half of the third millennium BC."

Insomma, è assodato che nel III millennio a.C., in piena età harappana matura, il cavallo domestico era già ben presente, probabilmente importato, piuttosto che portato da invasori, dei quali gli archeologi (persino occidentali) non danno più conferma. Eppure, Calasso cita i "pochi elementi indubitabili" presentati da Frits Staal (illustre studioso di filosofia, linguistica e ritualismo vedico, ma non proprio uno storico o un archeologo) (pp.29-30): "Più di tremila anni fa, piccoli gruppi di popoli semi-nomadi attraversarono le regioni montuose che separano l'Asia centrale dall'Iran e dal subcontinente indiano. [...] L'interazione fra questi avventurieri centroasiatici e i precedenti abitanti del subcontinente indiano diede origine alla civiltà vedica [...]" In tutto ciò, di 'indubitabile' non c'è niente. Un po' più avanti Calasso avanza tuttavia qualche dubbio sulla recente tendenza degli studiosi che "Per paura di essere accusati di presentarli come bianchi Ariani predatori [...] hanno attenuato e smussato, per quanto potevano, l'immagine degli uomini vedici. Ora non sono più conquistatori che irrompono dalle montagne e mettono a ferro e fuoco il regno degli autoctoni, soggiogandoli crudelmente. Ora sono un gruppo di emigranti che, alla spicciolata, filtrano in terre nuove senza quasi incontrare resistenza, perché la precedente civiltà dell'Indo si è già estinta, per cause non accertabili. Correzione doverosa, corrispondente ai magri dati archeologici, ma talvolta sospettabile di un eccesso di zelo."
Bisogna dire che questa correzione non corrisponde ai 'magri' dati archeologici. Ma Calasso segue le sue fonti accademiche occidentali, per discostarsene però proprio quando mettono in dubbio l'invasione. Cosa da un certo punto di vista ragionevole, dato che è abbastanza inverosimile che un popolo possa prendere il sopravvento senza colpoferire: il fatto è che in questo modo torna al buon vecchio invasionismo ottocentesco.

Con tutto ciò non voglio certo demolire l'opera di Calasso, che mi si prospetta come straordinariamente preziosa in quanto sguardo fresco e inedito sulla civiltà vedica, con punti di vista non accademici che possono rivelare significati profondi. Voglio solo invitare chi, come lui, parla dell'India vedica anche da un punto di vista storico di approfondire il problema e non fermarsi alla versione di professori occidentali solo perché insegnano in università prestigiose. Invito a studiare il punto di vista degli archeologi e studiosi indiani, che magari hanno più voce in capitolo riguardo alla loro storia di quanta ne abbiano tedeschi, francesi o americani. E mi stupisco un po' che chi mostra di amare tanto i Veda come Calasso trascuri la loro versione dei fatti, che non contempla invasioni dall'Asia centrale, e che chi ha pubblicato i classici del Tradizionalismo preferisca adottare l'ottica sull'India dei moderni europei rispetto a quella tramandata per millenni nella terra di Bharata...

mercoledì 8 dicembre 2010

L'ardore e la storia


Domenica scorsa è apparso in televisione, a 'Che tempo che fa', Roberto Calasso per parlare del suo ultimo libro: "L'ardore". Stimolante e meritevole impresa di comprensione della civiltà indiana dei Veda. Per ora ho letto solo interviste, presentazioni e brevi brani, e non posso discutere dei contenuti e delle interpretazioni, ma quello che già è emerso con chiarezza è la presentazione del contesto storico dei Veda del tutto in linea con gli stereotipi accademici. Non si può dare la colpa a Calasso di aver seguito le fonti classiche dell'indologia, ma il fatto che uno studio di 15 anni (tanti ha richiesto la preparazione di quest'opera) non abbia fatto emergere le teorie alternative che da più di 15 anni sono state avanzate a proposito degli Arii vedici e del loro rapporto con la civiltà harappana, è significativo e abbastanza triste. Calasso ha dato una presentazione del 'paradosso di Frawley' (lo studioso americano che sostiene una forma dell'identità vedico-harappana): una civiltà materiale (quella harappana) senza parola e una parola (i Veda) senza tracce materiali. Però lo accetta senza riconoscerne l'intrinseca improbabilità, come un affascinante enigma. E' vero che la civiltà vedica ha lasciato poche tracce visibili, i sacrifici vedici non facevano uso di templi e (a parte qualche eccezione) di immagini, ma di capanni e fuochi sacri. D'altro lato, pensare che la civiltà harappana, che occupava un milione di kmq. e comprende centinaia di siti, alcuni molto vasti, e faceva uso di una complessa scrittura, sia scomparsa senza lasciare memoria di sé, è cosa decisamente insostenibile. E così, un'opera che svolgerà un'importante funzione divulgativa sui Veda continuerà a inculcare il solito mito della discesa degli Arii da luoghi misteriosi nel 1500 a.C., portando il cavallo e la ruota con raggi (che invece esistevano anche nella civiltà harappana: sono stati trovati denti di cavallo in vari siti, e la ruota raggiata appare sia come simbolo della scrittura dei sigilli sia nelle linee dipinte su apparenti ruote piene dei carretti di terracotta). E milioni di telespettatori hanno imparato questa versione della storia dell'India e degli Arii come un dato di fatto... non mi presterò anch'io a chiedere un contraddittorio, del resto la trasmissione di Fazio non è un documentario di storia, però sarebbe venuto il momento di poter diffondere versioni più fondate del contesto in cui è cresciuta la civiltà vedica, radice della civiltà dell'India e ramo possente del grande albero indoeuropeo...

domenica 13 giugno 2010

Una prova genetica di una migrazione dall'India all'Europa


E' stato pubblicato online l'importante articolo del genetista americano  P.A. Underhill (et alia) sul gruppo genetico R1a (http://www.scribd.com/doc/23322591/Underhill-Et-Al-2009-Separating-the-Post-Glacial-Coancestry-of-European-and-Asian-Y-Chromosomes-Within-Hap-Lo-Group-R1a).


La mappa in verde qui sopra mostra la frequenza dell'aplogruppo R1a1a-M17, quella in rosso l'età calcolata in diverse regioni dell'Eurasia. Appare chiaramente che l'area più antica comprende il Sind e il Gujarat, con un'espansione verso ovest che trova nuove apparenti aree di irradiazione nel Caucaso e in Polonia. Si dice nell'articolo: “Analysis of associated STR diversity profiles revealed that among the R1a1a*(xM458) chromosomes the highest diversity is observed among populations of the Indus Valley yielding coalescent times above 14 KYA (thousands of years ago), whereas the R1a1a* diversity declines toward Europe where its maximum diversity and coalescent times of 11.2 KYA are observed in Poland, Slovakia and Crete.”
Quindi, nella valle dell'Indo l'aplogruppo R1a1a risulta più antico del 12000 a.C., mentre in Polonia, Slovacchia e Creta risalirebbe al 9200 a.C. circa.
Ancora: “Also noteworthy is the drop in R1a1a* diversity away from the Indus Valley toward central Asia (Kyrgyzstan 5.6 KYA) and the Altai region (8.1 KYA) that marks the eastern boundary of significant R1a1a* spread”.
Quindi, nel Kirghizistan, che pure ha un'alta percentuale di individui portatori di R1a1a, l'antichità di questo aplogruppo appare risalire solo al 3600 a.C., nell'Altai al 6100 a.C.
Quindi, sulla base di questi calcoli arriviamo alla conclusione che una popolazione sudasiatica si diffuse prima verso l'Europa, e più tardi verso l'Asia centrale. Non c'è dunque una migrazione antica dall'Europa verso l'Asia meridionale, o dall'Asia centrale verso quella meridionale, ma l'opposto. 
Se vogliamo collegare l'aplogruppo R1a1a con gli Indoeuropei, idea che rimane attraente, visto che sembra essere il solo aplogruppo che unisce con frequenze significative Indoarii, Iranici, Anatolici, Greci, Slavi e Germanici (meno i parlanti lingue romanze o celtiche), dovremmo ammettere che l'origine degli Indoeuropei è nell'Asia meridionale, e non in Europa orientale. Qui, troviamo una mutazione dell'aplogruppo, chiamata da Underhill R1a1a7:
“In Europe a large proportion of the R1a1a variation is represented by its presently identified subclade R1a1a7-M458 that is virtually absent in Asia. Its major frequency and relatively low diversity in Europe can be explained thus by a founder effect that according to our coalescent time estimation falls into the early Holocene period, 7.9±2.6 KYA. The highest regional date of 10.7±4.1 KYA among Polish R1a1a7 carriers falls into the period of recolonization of this region by Mesolithic (Swiderian and subsequent cultures) settlers. […] It should be noted, though, that the inevitably large error margins of our coalescent time estimates do not allow us to exclude its association with the establishment of the mainstream Neolithic cultures, including the Linearbandkeramik (LBK), that flourished ca. 7.5-6.5 KYA BP in the Middle Danube (Hungary) and was spread further along the Rhine, Elbe, Oder, Vistula river valleys and beyond the Carpathian Basin.”
Quindi, sembra che l'R1a1a7 sia sorto in Polonia tra il 12800 e il 4600 a.C., in una cultura che può essere quella mesolitica o quella neolitica della ceramica lineare che si diffuse tra Ungheria, Balcani, Germania e Polonia (http://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_della_ceramica_lineare). In tal modo, il popolo portatore dell'R1a1a nell'Europa orientale può essere associato alla rivoluzione neolitica in quest'area.

L'antichità di questa subclade e la sua assenza in Asia mostrano che non c'è stata migrazione dall'Europa all'Asia centrale in tempi recenti: “Although the R1a1a* frequency and diversity is highest among Indo-Aryan and Dravidian speakers, the subhaplogroup R1a1a7-M458 frequency peaks among Slavic and Finno-Ugric peoples. Although this distinction by geography is not directly informative about the internal divisions of these separate language families, it might bear some significance for assessing dispersal models that have been proposed to explain the spread of Indo-Aryan languages in South Asia as it would exclude any significant patrilineal gene flow from East Europe to Asia, at least since the mid-Holocene period.”

Poiché il periodo del medio Olocene è intorno al 4000 a.C., ciò significa che dopo quell'epoca, che è il limite minimo per l'origine della subclade R1a1a7, non possiamo supporre una migrazione dall'Europa all'Asia centrale e meridionale, e questo confuta tutte le teorie che suppongono che il popolo Kurgan della regione del Mar Nero andò verso l'Afghanistan durante la civiltà di Battriana e Margiana (BMAC, del III-II mill. a.C.) e poi in India (II mill. a.C.).
D'altro lato, la migrazione del popolo dell'R1a1a dall'Asia meridionale all'Europa appare molto più antica di quanto si è ipotizzato normalmente per la diffusione delle lingue indoeuropee, prima dell'età del Bronzo, durante il periodo mesolitico o neolitico. Quindi, se colleghiamo l'R1a1a con i parlanti indoeuropeo, dobbiamo antedatare questa diffusione, e vedere gran parte dell'Europa neolitica come già indoeuropea, rovesciando la teoria di Gimbutas sull'Europa antica, pre-Kurgan, come un mondo agricolo pacifico non indoeuropeo. D'altronde, anche un sostenitore dell'ipotesi Kurgan come Villar ha riconosciuto nella toponimia iberica uno strato indoeuropeo risalente all'epoca neolitica. Quanto all'Alteuropäisch del Krahe, ovvero quella terminologia che si trova solo nelle lingue indoeuropee d'Europa centrale e occidentale, ma non in greco o in sanscrito, potrebbe essere legata al popolo dell'R1a1a7, che, significativamente, è assente anche in Grecia. Tale data antica dell'arrivo dei portatori dell'R1a1a e delle lingue indoeuropee contraddirebbe comunque la teoria della continuità paleolitica di Alinei e Costa, perché attribuirebbe le culture paleolitiche a popolazioni preindoeuropee.
D'altronde, non tutto l'R1a1a in Europa è R1a1a7, quindi forse non possiamo escludere successive migrazioni di popoli dall'Asia all'Europa, portando le lingue indoeuropee (tra cui il greco, molto più vicino al sanscrito o all'iranico di altre lingue europee): abbiamo esempi di migrazioni in Europa di popoli iranici come Sciti, Sarmati e Alani, e dei Rom e Sinti indiani, anche in tempi storici.

mercoledì 9 dicembre 2009

La ricerca genetica rivela la storia remota della popolazione dell'India e degli Indoeuropei


Un nuovo studio genetico molto dettagliato, compiuto da scienziati basati in India e negli Stati Uniti, ha rivelato che la popolazione dell'India è il risultato di due componenti principali, una meridionale più antica (di 65000 anni fa) e una settentrionale apparsa nel subcontinente 45000 anni fa. Questa componente settentrionale è affine alle popolazioni centrasiatiche, mediorientali ed europee, mentre quella meridionale si rivela molto isolata, anche se nel corso dei millenni si è ampiamente mescolata con quella settentrionale, dando origine agli Indiani attuali.
La presunta invasione aria del II millennio a.C. risulta eclissata da questi dati, e l'origine delle caste è individuata in usanze endogamiche emerse dalle tribù locali, e non da invasioni esterne.
Qui si possono leggere due presentazioni divulgative:
E qui si possono trovare numerose informazioni integrative liberamente disponibili:
http://www.nature.com/nature/journal/v461/n7263/extref/nature08365-s1.pdf-s1.pdf




























Un altro studio interessante e recente è quello di Underhill &c. (vedi qui), specificamente incentrato sulla vexata quaestio dell'aplogruppo R1a, associato agli Indoeuropei.
La scoperta più significativa è che gran parte degli R1a europei appartengono a una ramificazione (denominata R1a1a7) che risulta limitata all'Europa (inclusi Caucaso e Turchia, vedi mappa in alto a destra), negando quindi un'invasione di questo ramo europeo in India.
Non solo, come mostra una tabella dell'articolo (vedi qui), l'origine dell'aplogruppo R1a1a risulta nell'attuale India occidentale, 15800 anni fa, seguita dal Pakistan (15000 anni fa) e dal Nepal (14200 anni fa). In Caucaso risalirebbe a 12200 anni fa, in Polonia a 11300 anni fa, in Italia a solo 5900 anni fa. Queste datazioni non vanno naturalmente prese alla lettera, calcolano convenzionalmente generazioni di 25 anni, e si basano su metodi non del tutto universalmente accettati, però possono darci interessanti indicazioni sui movimenti di questo lignaggio genetico maschile, che sembrerebbe ben anteriore al supposto periodo di diffusione delle lingue indoeuropee. Non corrisponderebbe né alle teorie di Alinei e Costa (che suppongono i parlanti indoeuropeo come i primi abitanti dell'Europa), né a quelle di Renfrew (che suppone l'origine dell'indoeuropeo nella rivoluzione neolitica anatolica), né a quelle della Gimbutas sull'invasione indoeuropea dall'Ucraina dei Kurgan. Quest'ultima tesi però, piuttosto accreditata tra gli indoeuropeisti, potrebbe avere qualche validità relativamente all'Europa, visto che l'R1a1a si è diffuso a partire dall'Europa orientale, anche se stranamente nell'Ucraina dei Kurgan l'R1a1a, secondo lo studio di Underhill, risale a soli 7400 anni fa, ben più tardi della Polonia, tuttavia certamente prima dell'inizio delle culture Kurgan (datate a partire dal 4500 a.C., vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Kurgan_culture#Kurgan_culture).
E' interessante quello che osserva lo stesso studio a proposito del sottogruppo R1a1a7:
"Its highest frequencies are in Central and Southern Poland, particularly near the river valleys flowing northwards to the Baltic sea. The authors estimated an age which associates this sub-clade with the Corded Ware Culture." (http://en.wikipedia.org/wiki/Haplogroup_R1a_(Y-DNA))
Sembrerebbe quindi probabile un'associazione della cultura della ceramica a cordicella (Corded Ware Culture), che si diffuse a partire dal 3200 a.C. nell'Europa centro-orientale, e fiorì nell'età del bronzo, introducendo i metalli nell'Europa settentrionale. Nel XIX secolo, vi fu addirittura chi la identificò come la culla del protoindoeuropeo, ma oggi si suppone piuttosto che sia all'origine delle lingue balto-slave, germaniche, celtiche e italiche (vedi http://en.wikipedia.org/wiki/Corded_Ware_Culture#cite_ref-7).

In conclusione, se vogliamo trovare un nesso tra genetica e lingue, potremmo ipotizzare che il protoindoeuropeo si sia formato nell'Asia meridionale occidentale in popolazioni R1a1a, che si sono poi espanse sia nell'India settentrionale sia nell'Asia centrale e nell'Europa orientale, creando un'area protoindoeuropea (la 'Aryan belt' di Sethna, tra Ucraina e India settentrionale) forse soprattutto in epoca neolitica. La trasmissione di termini relativi ai metalli, ai carri, ecc., potrebbe essere avvenuta anche successivamente nella stessa area.




domenica 15 novembre 2009

La stagione di gloria degli Indoarii nel Vicino Oriente

Nel post sugli Etruschi, avevo accennato alla presenza di Indoarii in Anatolia e nel Vicino Oriente. Questa presenza inaspettata è emersa grazie alla scoperta del trattato tra Matiwaza di Mitanni e il re ittita Suppiliuluma, che presentava chiaramente le divinità vediche Mitra, Varua, Indra e i Nāsatya, e dei nomi indoarii dei regnanti di Mitanni, come il fondatore Kirta, che richiama il sanscrito kīrti- 'gloria', oppure Artadāma (scr. tadhāman- 'che dimora nell'ordine cosmico'), o Tu(i)shra(t)ta (scr. *tviratha-, tvearatha- 'che ha carri impetuosi o splendenti'). Il regno di Mitanni si estese sull'Alta Mesopotamia fino alla costa mediterranea, come mostra la cartina, ed era abitato prevalentemente da Hurriti, una popolazione di lingua non indoeuropea; la dinastia però era evidentemente di origini indoarie, e regnò sulla regione dal XV al XIII sec. a.C., giungendo a farsi vassalla l'Assiria, da cui finì conquistato. Il culmine del potere fu agli inizi del XIV secolo, sotto Shuttarna II (o Sudarna, equivalente secondo Dumont a *Sudharaa 'che sostiene bene'), che diede sua figlia Kilu-hepa in sposa al faraone Amenhotep III. Questi sposò anche la figlia del successore di Shuttarna, Tushratta, chiamata Tadu-hepa, in seguito presa in moglie anche da Amenhotep IV, più noto come Akhenaton, il famoso faraone 'monoteista'. Ci sono rimaste anche lettere di Tushratta ad Akhenaton, una a proposito del dono di statue d'oro di lui stesso e della figlia Tadu-hepa, promesse come dote per il suo matrimonio con Amenhotep III (http://en.wikipedia.org/wiki/Akhenaten).

Ciò dimostra l'importanza di Mitanni (di cui vediamo qui a destra un sigillo reale) e della sua dinastia 'indo-aria' nel panorama delle grandi potenze del Vicino Oriente. Ma meno nota è la presenza indo-aria a Babilonia, nella cosiddetta dinastia Cassita. Un interessante studio sulla lingua di questa dinastia è quello di A. Ancillotti, "La lingua dei Cassiti", del 1981. Nell'introduzione storica, nota che il fondatore della dinastia è ritenuto Gandaš, alla fine del XVIII sec. a.C., perché primo a insediarsi all'interno del territorio babilonese, provenendo dall'Iran. Ma l'insediamento della dinastia a Babilonia lo data all'inizio del XVI secolo, con Agum II. Babilonia fu ribattezzata Karanduniaš, e fu poi fondata una nuova capitale, Dur-Kurigalzu, in onore del re Kurigalzu del XV secolo. Secondo Ancillotti, i Cassiti portarono un sistema feudale, articolato in monarchie locali tributarie del re di Babilonia. Si afferma la datazione basata sul numero degli anni di regno del sovrano, e si istallano le pietre di confine (kudurru), sulle quali, dal 1200 a.C., si incontra l'uso di nomi di famiglia, prima non attestato. Particolarmente significativa è l'introduzione della cavalleria da guerra e dei carri da guerra, "insieme ad una evoluta arte ippologica". Questo è un elemento certamente notevole in rapporto all'identità indoaria di questa dinastia, visto che nel XIV secolo l'arte dell'allevamento dei cavalli fu illustrata con grande precisione da Kikkuli, addestratore di cavalli (assussanni, cfr. scr. aśva-sani- 'che ottiene o procura cavalli') di Mitanni, nel suo trattato scritto in ittita, ma con alcuni termini chiaramente indoarii, quali aika-, tera-, panza-, satta-, nā-wartanna, corrispondenti a scr. eka-, tri-, pañca-, nava-vartana 'uno, tre, cinque, sette, nove giri'. Documenti di Nuzi, nella Mesopotamia settentrionale, sotto l'influsso di Mitanni, troviamo aggettivi per i cavalli molto simili a quelli sanscriti: babru-nnu (scr. babhru, 'marrone'), parita-nnu (scr. palita, 'grigio'), e pinkara-nnu (scr. pigala, 'fulvo'). Nelle lettere di Amarna (capitale di Akhenaton in Egitto) e nei testi accadici, si menzionano i maryannu, guerrieri conduttori di carri, il cui nome è stato confrontato con il sanscrito marya- 'giovane guerriero', con il solito suffisso hurrita -nnu.

Ora, l'Ancillotti individua analoghi termini indoarii in contesto cassita. Già prima di lui si erano riconosciuti alcuni teonimi arii, come Suriyaš, scr. Sūrya 'Sole'. Ma Ancillotti si spinge oltre. Riconosce come aria gran parte dell'onomastica, e appunto del lessico dell'ippologia, oltre a vari teonimi. Il lessico relativo al carro da guerra comprende alaka (scr. araka- 'raggio della ruota'), akkandaš (scr. aṅkānta-s 'cerchione'), ecc.; le denominazioni dei tipi di cavalli sono sirpi (scr. śilpī 'pezzato'), timiraš (scr. timira-s 'scuro').

Tra i nomi di divinità, che si trovano anche nei nomi di sovrani, abbiamo Indaš, corrispondente al vedico Indra; Maruttaš, scr. māruta-s, che indica gli dèi della tempesta; Bugaš, scr. bhaga-s, nome di uno degli dèi Āditya o anche genericamente 'dispensatore' e 'fortuna, prosperità, maestà', ecc.

Ancillotti passa in rassegna numerosi termini, spiegandone la possibile origine aria secondo certe leggi fonetiche, e arriva a sostenere che il nome che i Cassiti (così chiamati dagli appellativi accadici e greci) davano a se stessi, era 'Kuru'. A chiunque conosca un po' la tradizione indiana, questo nome evoca immediatamente il Mahābhārata e Kurukshetra, il territorio dove si è combattuta la battaglia, già sacro per la presenza del fiume Sarasvatī.

Come arriva a questa conclusione? Perché il già menzionato nome di un re cassita, Kurigalzu, è tradotto in accadico come 'pastore dei Cassiti', e Ancillotti ritiene che sia -galzu a significare 'pastore'. Esiste anche il nome Kuriyani, da accostare a scr. yānī 'conduttore', quindi 'conduttor dei Kuru'. Non solo, un nome proprio maschile e nome di cavallo è Kurukšebugaš, da un ipotetico Kuru-kaya-, dove kaya- indica in sanscrito 'dimora' e anche 'che risiede', dunque il termine potrebbe essere secondo Ancillotti 'Bugaš risiedente tra i Kuru' o 'Bugaš è la dimora dei Kuru'. Ma kaya- può significare anche 'famiglia, stirpe', certo in quanto 'casa, casata', quindi Kurukšebugaš potrebbe anche essere 'fortuna della stirpe dei Kuru'.

Ancillotti è un invasionista, rispetto all'India, quindi ritiene che i Kuru fossero una tribù centrasiatica che è andata sia in Vicino Oriente che nel subcontinente indiano, ma noi possiamo supporre che essa sia invece d'origine indiana, come mostrano i nomi di divinità, i termini relativi ai carri e ai cavalli.

Tirando le fila, possiamo ipotizzare che a partire dal XVIII sec. a.C. gruppi di guerrieri indiani siano partiti verso occidente, in un periodo effettivamente segnato nell'India nordoccidentale da crisi ambientali e conflitti, e si siano affermati grazie alla loro capacità di combattere con carri trainati da cavalli, ma certo anche a capacità politiche e amministrative. Questi appaiono ben presenti nel Rigveda, che io dato nella prima metà del II mill. a.C., con una fase particolarmente importante intorno al 1900 a.C., quando si dovrebbe situare la Battaglia dei Dieci Re. Secondo la mia cronologia delle genealogie, lo stesso Kuru, capostipite della dinastia, si può situare intorno al 1886 a.C., quindi ben prima dell'arrivo dei Cassiti in Mesopotamia, che di conseguenza sarebbero potuti essere dei Kuru, anche se probabilmente mescolati con popolazioni di altra etnia assimilate lungo il percorso verso la valle del Tigri e dell'Eufrate.

Questi guerrieri, che appartenessero ai Kuru o ad altre stirpi aristocratiche, mantennero una loro identità culturale per alcuni secoli, come attestato nell'onomastica e dai teonimi, ma naturalmente, come minoranza, ebbero la tendenza ad assimilarsi alle culture locali. E' affascinante immaginare dei principi di origine indiana alla guida di regni mediorientali, a contatto con altre antiche civiltà, divisi tra il culto dei loro dèi ancestrali e quelli dei loro sudditi, tenaci nel mantenere alcune tradizioni della loro terra lontana. Quando si persero nell'oblio cosa lasciarono in eredità? Certamente i loro carri e cavalli, ma forse anche altro. Parte della loro lingua potrebbe essere rimasta nei dialetti curdi e nell'armeno, visto che curdi e armeni hanno vissuto nel territorio del regno di Mitanni e del successivo regno di Shupria (confrontabile col scr. supriya- 'molto piacevole') presso il lago Van (http://en.wikipedia.org/wiki/Shupria).

Geneticamente, si è notato che l'aplogruppo R1a-M17 (associabile agli Indoarii) ha una frequenza di circa il 6,9% in Turchia, è più frequente nelle parti orientali, ed è analogo a quello che si trova in Armenia: ("The higher frequency of R1a1-M17 lineages in eastern Turkey is consistent with an entry into Anatolia via the Iranian plateau where the associated variance is appreciably higher (Quintana-Murci et al. 2001). The most common R1a1-M17 haplotype in Armenia (Weale et al. 2001)matches the most common in Turkey." Vedi Excavating Y-chromosome haplotype strata in Anatolia http://hpgl.stanford.edu/publications/HG_2004_v114_p127-148.pdf).

Inoltre, se la tesi sugli etruschi di Bernardini Marzolla è giusta, la loro eredità culturale si sarebbe spinta fino all'Italia, tramite l'Anatolia. Si potrebbe dire che il II millennio a.C. sia stata la fase dell'espansione indiana verso occidente, un'espansione di piccole élites, ormai separate dalla madrepatria. Una simile espansione non si sarebbe ripetuta nel millennio successivo, quando si affermò la potenza persiana sull'altopiano iranico, e la civiltà dell'India trovò un nuovo baricentro nella valle del Gange.

domenica 28 giugno 2009

Notizie indologiche

http://nalandainternational.org/IndusConference/indusconference.htm


Alcune novità nel mondo indologico, scoperte in rete.


Il 21-22 febbraio 2009, presso la Loyola Marymount University, a Los Angeles, si è tenuta una conferenza internazionale intitolata "The Sindhu-Sarasvati Valley Civilizations:A Reappraisal" (qui sopra il link e le immagini collegate), con alcuni dei più importanti 'nomi' dell'archeologia indiana sia dall'India sia dagli Stati Uniti: S.R. Rao, R.S. Bisht, Kenoyer e Shaffer. Inoltre, c'era un grande esperto della questione dell'invasione aria quale Edwin Bryant e anche uno studioso greco, Kazanas, uno dei pochi occidentali critici della teoria dell'invasione e della cronologia ufficiale dei Veda. Quello che è interessante in questa conferenza è appunto la sua apertura a posizioni considerate eretiche dall'establishment accademico anche americano, e fa ben sperare per un'apertura del dibattito e per quella Grande Transizione che vari indizi suggeriscono essere in corso: dal vecchio modello ad uno nuovo, non più basato sulla teoria aprioristica dell'invasione o migrazione aria in India.




Uno dei motori della Transizione è certamente Koenraad Elst, indologo belga che ha anche recensito, sul suo blog (http://koenraadelst.blogspot.com/), un nuovo libro di Shrikant Talageri, pubblicato nel 2008, su Rigveda e Avesta, che dà una formulazione basata (tra le altre cose) su questi due testi della teoria secondo cui gli Indoeuropei sono originari dell'India, tramite la tribù indoaria dei Druhyu, emigrata dal Nordovest del subcontinente verso l'Europa, laddove gli Iranici sarebbero derivanti dalla tribù indoaria degli Anu. Mi riservo di leggere personalmente questo nuovo parto dell'energico studioso indiano per dare un giudizio, anche se trovo almeno in parte convincente il suo precedente libro del 2000 (The Rigveda: A Historical Analysis).




martedì 12 maggio 2009

Nuove scoperte di archeologia harappana in India


Lo scorso marzo, è stata divulgata una importante scoperta archeologica presso il villaggio di Farmana in Haryana, India. Qui a sinistra potete vedere un'immagine degli scavi che ho scattato nel marzo 2008 durante una visita al sito, che è stato registrato dall'UNESCO. Per particolari sulle scoperte, si può vedere la notizia su un blog di archeologia preistorica: http://www.stonepages.com/news/archives/003205.html che trae le informazioni da articoli apparsi in India. Oltre all'interessante scoperta di un complesso di 26 stanze con cortile, che può indicare un 'palazzo' dell'élite, la scoperta più significativa è il cimitero con ben 70 sepolture, i cui scheletri saranno studiati per individuare l'alimentazione e l'identità genetica. Ora, queste sepolture presentano i tratti caratteristici harappani: forma rettangolare, orientamento nord-sud. Il direttore degli scavi, Vasant Shinde, sostiene: "All the graves are rectangular - different from other Harappan burials sites, which usually have oblong graves" ma possiamo citare S.P. Gupta in "Disposal of the Dead and Phisical Types in Ancient India" (Delhi 1972), p.75, che afferma che si seppelliva il corpo in 'oblong pits' che, quando scavati con più cura, "assumed rectangular shapes". Evidentemente, le tombe di Farmana appartengono a questa categoria. Shinde aggiunge: "The site shows evidence of primary (full skeleton), secondary (only some bones) and symbolic burials, with most graves oriented northwest-southeast, though there are some with north-south and northeast-southwest orientations as well. The variations in burial orientation suggests different groups in the same community"
Ora, vorrei fare un confronto con quello che dice lo Śatapatha Brāhmaa XIII.8.1.5 (uso qui la traduzione di Julius Eggeling riportata sull'ottimo sito http://www.sacred-texts.com/hin/sbr/sbe44/sbe44113.htm#fr_1132:
Four-cornered (is the sepulchral mound). Now the gods and the Asuras, both of them sprung from Pragâpati, were contending in the (four) regions (quarters). The gods drove out the Asuras, their rivals and enemies, from the regions, and, being regionless, they were overcome. Wherefore the people who are godly make their burial-places four-cornered, whilst those who are of the Asura nature, the Easterns and others, (make them) round, for they (the gods) drove them out from the regions. He arranges it so as to lie between the two regions, the eastern and the southern, for in that region assuredly is the door to the world of the Fathers: through the above he thus causes him to enter the world of the Fathers; and by means of the (four) corners he (the deceased) establishes himself in the regions, and by means of the other body (of the tomb) in the intermediate regions: he thus establishes him in all the regions.
Come si può vedere, la sepoltura è orientata verso sud-est proprio come la maggior parte delle tombe di Farmana. S.P. Gupta (ibidem) parla genericamente di orientamento nord-sud per le sepolture harappane, con la testa verso nord, e qui a Farmana abbiamo qualcosa di ancora più specifico, che coincide con le concezioni vediche espresse nello Śatapatha Brāhmaa, testo che io situerei dopo il 1300 a.C., ma che può ben conservare concezioni tradizionali immutate, come quella dell'associazione della regione sud-orientale con il mondo dei Padri. Non solo: secondo ŚBr.XIII.8.1.9, la regione nordoccidentale è la direzione 'dei viventi' (jīvānām).
Ancora: quando visitai il sito di Farmana l'anno scorso, andai anche in una spianata nelle campagne vicine dove avevano trovato alcuni resti di sepolture: tramite un giovane che conosceva l'inglese, feci chiedere ai contadini se il terreno era salato, ed essi dissero che era proprio così. Avevo fatto questa domanda perché uno studio sul cimitero del sito harappano di Kalibangan, di A.K. Sharma, "The Departed Harappans of Kalibangan" (New Delhi, 1999), p.104, notava che il terreno del cimitero ha un'alta percentuale di sale, e che questo coincideva con quello che diceva lo Śatapatha Brāhmaa, il quale infatti ingiunge (XIII.8.1.14):
He makes it on salt (barren) soil, for salt means seed; the productive thus makes him partake in productiveness, and in that respect, indeed, the Fathers partake in productiveness that they have offspring: his offspring assuredly will be more prosperous.
Insomma, ci sono forti elementi per dimostrare l'uniformità con la tradizione vedica di questi antichi indiani del 2600-2200 a.C. Ora aspettiamo con interesse i risultati dell'indagine sul DNA: se si trattasse di R1a1, questo escluderebbe l'arrivo nel II millennio a.C. dei portatori di questo gruppo genetico e farebbe degli 'Harappani' locali dei probabili 'indoarii'.

giovedì 16 aprile 2009

Invasione aria dell'India: mito o realtà?

In risposta al recente commento da 'Orientamenti', blog orientalista, sulla questione di una migrazione 'aria' o 'indoeuropea' proveniente dall'esterno dell'India, cito un altro articolo di genetica recente, di Sengupta e altri, apparso sull'American Journal of Human Genetics del febbraio 2006

our overall inference is that an early Holocene expansion in northwestern India (including the Indus Valley) contributed R1a1-M17 chromosomes both to the Central Asian and South Asian tribes prior to the arrival of the Indo-Europeans.

there is no evidence whatsoever to conclude that Central Asia has been necessarily the recent donor and not the receptor of the R1a lineages.

Questo significa che le teorie che hanno circolato sull'origine centrasiatica dell'R1a1 in India non sono sostenibili, ma anzi sembra vero il contrario, che l'Asia centrale abbia una presenza più recente rispetto all'area indiana dell'R1a1, il gruppo genetico candidato a rappresentare gli indoeuropei. L'articolo di Sengupta continua a dare per buono il dogma dell'arrivo degli Indoeuropei, senza collegarlo all'arrivo di questo gruppo come hanno fatto altri genetisti, ma non dà prova di tale migrazione.
Inoltre, gli studi dell'antropologo fisico K.A.R. Kennedy sugli scheletri harappani gli hanno fatto concludere che sono sostanzialmente affini a quelli delle popolazioni attuali e comunque non vi sono discontinuità tra il 4500 e l'800 a.C., quindi nemmeno nel periodo indicato per l'invasione aria, ovvero il II millennio a.C.
L'indologo Edwin Bryant, intervistando gli archeologi indiani negli anni '90, ha notato che l'opinione prevalente è che non ci sono prove dell'invasione. E ancora gli archeologi Shaffer e Lichtenstein hanno scritto nel 1999:

Outside influences did affect South Asian cultural development in later historic periods, but an identifiable cultural tradition has continued, an Indo-Gangetic Tradition linking diverse social entities which span a time period from the development of food production in the seventh millennium BC to the present.

Questo significa che l'archeologia non ci permette di parlare di una discontinuità della civiltà dell'India, quale si supponeva sulla base della teoria dell'invasione aria. Occorre chiedersi come sia sorta questa teoria, su basi meramente linguistiche (con pregiudizi eurocentrici), e come sia diventata un dogma accettato senza le più elementari precauzioni critiche.

Leggendo le pubblicazioni indologiche, colpisce come si parli della migrazione indoeuropea in India nel II millennio a.C. come un dato di fatto, senza darne nessuna prova. E' un'idea ricevuta dagli accademici del passato, tramandata proprio come un mito fondativo, e difesa strenuamente come un credo, la cui messa in discussione potrebbe far traballare le fondamenta della Chiesa indoeuropeistica... Gli anti-invasionisti sono costretti ad assumere i toni veementi di un Lutero, e ad essere emarginati come pericolosi eretici!


sabato 14 marzo 2009

Un indizio interessante sull'identità della civiltà harappana


Qui a sinistra vediamo uno degli innumerevoli sigilli del periodo harappano maturo (2600-1900 a.C.), trovato a Mohenjo-daro. Al centro presenta il cosiddetto 'unicorno' dal corpo taurino, e a sinistra un misterioso oggetto. Recentemente ho letto un articolo dello studioso tamil Iravatham Mahadevan (in 'South Asian Archaeology 1993', per la sua biografia e foto vedi
http://www.harappa.com/arrow/bio.html), e trovo la sua interpretazione dell'oggetto geniale e nel complesso pienamente convincente.
Infatti secondo lui la parte superiore è un setaccio attraversato orizzontalmente da dei filtri, verticalmente dal liquido detto Soma (forse questo è l'unico aspetto da rivedere: può essere che sia la rappresentazione in verticale di un setaccio orizzontale), che sotto forma di triangolo scende nel recipiente sottostante, una colino da cui sprizzano le goccie. Ecco l'immagine analitica:
Oltre a questo, l'asta sottostante indica che siamo di fronte a uno stendardo che ha su di sé il simbolo del Soma, in omaggio al dio Indra a cui tale sacra bevanda è principalmente offerta. Che l'uso di un simile stendardo esistesse, anche in processione, è attestato da quest'altra immagine a destra:

Tutto ciò cosa significa? Per Mahadevan, che il culto del Soma è sopravvissuto all'arrivo degli Indoarii alla fine della civiltà harappana, ma per noi che neghiamo, sulla base dell'archeologia e dei testi, la realtà di una invasione o immigrazione indoeuropea dell'India si tratta di una eccellente conferma che la civiltà harappana non è altro che la civiltà vedica, come ci mostrano anche gli altari del fuoco e le sepolture.
Culto del Soma e culto di Indra (simboleggiato dal toro) sono dunque parte integrante della civiltà harappana, che, come già rimarcato, si è sviluppata principalmente sul fiume Sarasvati, il fiume sacro del Rigveda.
Quello che ancora manca è la decifrazione della scrittura. Oggi ho appreso dell'esistenza di un ennesimo tentativo, quello di Kurt Schildmann e Rainer Hasenpflug (vedi http://www.indus-civilization.info/), ma da quello che ho visto è anche un ennesimo buco nell'acqua, anzitutto perché segue l'orientamento inverso a quello riconosciuto (da sinistra a destra invece che da destra a sinistra). E' notevole però che si tratta di un tentativo di decifrazione in senso indoeuropeo, segno che tale identificazione si sta affermando sempre più negli studi (non sempre accademici) sulla civiltà harappana.

lunedì 2 marzo 2009

Trasmissione sull'archeologia indiana su radio 3

Ieri sera ascoltando la radio, ho avuto la bella sorpresa di sentir parlare di archeologia indiana su radio 3, nella trasmissione 'Siti terrestri, marini e celesti' (l'audio si trova su

In particolare si è affrontato il tema di Mehrgarh, antichissimo sito della valle del Bolan, in Pakistan, già abitato tra IX e VIII millennio a.C., e che ci offre già intorno al 6500 a.C. una struttura evoluta, definita nella trasmissione una vera e propria 'città' per l'epoca, avendo 25000 abitanti ed estendendosi su 70 ettari, cinque volte più grande di Çatal Hüyük in Anatolia, considerata la città più antica del mondo (vedi ad esempio

Si è parlato anche di Mohenjo Daro e della sua urbanistica, ma la cosa più significativa è che si è anche confutata la teoria dell'invasione 'ariana' dell'India, e si è parlato del prosciugato fiume Sarasvati, due elementi caratteristici delle teorie indigeniste, secondo cui la cultura indoaria e vedica è autoctona dell'India, e si è sviluppata nella valle del fiume Sarasvati. Ora, l'area che è riconoscibile come sede di questo letto ormai prosciugato, di fatto presenta circa l'80% dei siti della civiltà cosiddetta 'dell'Indo', che dovrebbe quindi chiamarsi in primis 'civiltà della Sarasvati', e andrebbe identificata con quella vedica che si è sviluppata sullo stesso fiume, senza dar segno di essere arrivata dall'esterno come pretendono le aprioristiche teorie invasioniste sviluppate dagli indoeuropeisti dell'Ottocento.
Per approfondimenti, segnalo il mio articolo 'Sulle tracce del fiume Sarasvati e della sua antica civiltà tra letteratura, archeologia e geologia', apparso su 'Studi classici e orientali' n.49 (2003).