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mercoledì 20 giugno 2012

Le sorprendenti affinità tra la Roma antica e l'India




Recentemente, un amico aveva 'postato' delle osservazioni a proposito della dieta dei legionari romani, sostenendo, oltre al fatto che era essenzialmente vegetariana, che non mangiavano carne bovina per la sacralità del bue. E un sito di argomento archeologico effettivamente conferma questo dato. Comunque, ciò mi ha riportato alla mente alcune affinità che avevo notato tra Roma antica e India, tra cui l'uso di un velo rosso per il matrimonio. Andando a guardare il rito nuziale romano, ho scoperto che il matrimonio più ritualizzato e arcaico era la confarreatio, riservata ai patrizi, e infine soltanto ai Flamines, quei sommi sacerdoti che Dumézil aveva confrontato (anche etimologicamente) con i Brahmani indiani. Ebbene, nella confarreatio (vedi anche questo saggio), oltre al flammeum, velo rosso fuoco (o arancio), che ritroviamo nel matrimonio indiano (vedi foto sopra), lo sposo e la sposa compivano insieme tre giri intorno all'altare verso destra, tanto che questo rito era chiamato dexteratio. Ora, in India questo rito si chiama pradakṣiṇa, termine che mostra la stessa radice indoeuropea (*daks-/deks-), e che significa appunto girare procedendo verso destra. Oggi (vedi qui) si compiono quattro giri intorno al fuoco sacro che funge da luogo delle offerte nel rito vedico, di cui tre guidati dallo sposo e uno dalla sposa. D'altronde, ancora nella Grecia contemporanea si compiono tre giri dell'altare della Chiesa durante il matrimonio (benché in senso antiorario, rito condiviso dai russi ortodossi), così come si usa ancora un velo color fuoco (vedi questa pagina, e secondo il saggio già menzionato, come c'era da aspettarsi, il velo rosso era usato anche nel matrimonio della Grecia antica). Tornando a Roma, momento clou della cerimonia era la dexterarum iunctio (che appare qui sotto), ed anche nella cerimonia indiana l'unione o 'afferrarsi' delle mani destre (paṇi-grahaṇa) è un momento cruciale del rito. Altra analogia, il nome confarreatio allude alla condivisione di una focaccia di farro in onore di Iuppiter Farreus da parte degli sposi, ed anche nel rituale indiano un momento è quello dello scambio di un boccone di cibo dai resti delle offerte (anna-prāśana).


Ora, se molti di questi rituali possono sembrare abbastanza scontati (ma bisognerebbe trovare un altro parallelo che li presenti tutti) quello della dexteratio appare veramente significativo, perché l'uso di girare tre volte in senso orario intorno a un oggetto o una persona sacri è qualcosa di pervasivo in India, è un gesto fondamentale, presente sia nell'Induismo sia nel Buddhismo. A questo proposito, occorre citare un altro contesto antropologico, quello funerario: in una voce molto interessante di un'enciclopedia di religione ed etica di James Hastings, intitolata 'circumambulation', troviamo che nella Tebaide di Stazio, VI.215-224, durante i riti funebri in onore del figlio di Licurgo, i guerrieri girano prima tre volte verso sinistra (sinistro orbe... ter curvos egere sinus), poi, a un ordine dell'augure, tornano girando verso destra (dextri gyro... hac redeunt). Ora, un rito analogo era prescritto nello Śatapatha Brāhmaṇa (II.6.1.15), in occasione delle offerte agli antenati defunti: l'officiante compie prima tre giri verso sinistra (apasalavi), quindi tre verso destra (prasalavi), a simboleggiare il movimento verso il mondo degli antenati e il ritorno a questo mondo.
D'altronde, anche la circumambulatio urbis dei Luperci era una corsa attorno a Roma in senso antiorario, e ancora oggi a Roma si compiono circoambulazioni nel rito cattolico della Pasqua (si veda qui), ed anche in India si usava circoambulare la città in certi contesti.
Abbiamo detto che il matrimonio per confarreatio si ridusse essenzialmente ai flamines, e in particolare il Flamen dialis, sommo sacerdote di Giove, doveva nascere da un matrimonio celebrato per confarreatio (come anche il Rex sacrorum e le Vestali). Ora, il termine flāmen è stato paragonato (a partire almeno da Dumézil) a quello di brahman o brāhmaṇa da un proto-indoeuropeo *bhlagh-mēn, così come il sacerdozio detto flāmonium è stato paragonato al brāhmaṇyam da *bhlāgmonyom. Ma a parte queste dubbie ipotesi linguistiche, ci sono dei suggestivi paralleli tra le due figure, come nota Bernard Sergent in Les Indo-Européens, p.376: il flamen dialis non può giurare, il brahmano non può essere chiamato a testimone, il rapporto con l'ambito militare è proibito per entrambi, i testi menzionano nei due casi divieti concernenti il cavallo, il cane, l'uso dell'olio; sono loro proibiti l'avvicinarsi al rogo funebre, la consumazione di bevande fermentate e di carne non cucinata. Non potevano stare nudi, e ciò si estende alla sposa, la flāminicā e la brāhmaṇī, che gioca un ruolo essenziale di collaboratrice in tutta l'attività cultuale dello sposo. Si può essere flamen dialis o brahmano da giovane, e ciò esclude dalla potestà paterna. Il colore del loro costume e di diversi simboli è il bianco, che secondo Dumézil è il colore specifico della prima funzione in numerosi testi.
D'altronde, il suffisso -men, che ritroviamo anche in numen 'potere divino' o lumen 'luce' o carmen 'poesia, incantesimo', è parallelo a quello indiano -man, che oltre che in brahman si trova anche ad esempio in śarman 'rifugio', varman 'armatura', karman 'azione', manman 'pensiero, preghiera'.  

Ancora, vorrei segnalare la somiglianza tra latino e antico indiano di alcuni termini fondamentali, come ignis, 'fuoco', aind. agnis, lat. vox 'voce, parola', aind. vāk 'linguaggio, voce, parola', lat. vīta, aind. jīvitam 'vita', lat. deus, aind. devas 'dio', lat. mens, aind. manas 'mente', lat. medius 'medio' aind. madhyas, lat. iuvenis, aind. yuvan 'giovane', lat. iugum, aind. yugam 'giogo', lat. dōnum, aind. dānam 'dono', lat. domus, aind. damas 'casa', lat. concha, aind. śaṅkha 'conchiglia', lat. vertit, aind. vartate, 'volge, gira'...
Come si può vedere dalle terminazioni di molti termini, il latino condivide con il sanscrito la finale -s per i nomi maschili (quando la parola è isolata in sanscrito è aspirata), e la -m per i neutri, che ritroviamo anche nell'accusativo in entrambe le lingue. In latino arcaico (e in falisco) abbiamo una desinenza singolarmente simile all'antico indiano: il genitivo in -osio, che si trova nel Lapis Satricanus (Popliosio Valesiosio), e corrisponde all'aind. -asya. Rispetto ad altre lingue indoeuropee, risalta anche che il pronome riflessivo suus è perfettamente corrispondente al sanscrito sva-.
 
E ci sono anche dei nomi propri in latino che potrebbero spiegarsi con termini o nomi indiani: Marius fa pensare all'aind. maryas 'giovane uomo', Gaius al nome proprio Gaya, Remus al celebre nome Rāma... Infine, notevoli anche i paralleli sanscriti dei nomi delle divinità: Iuppiter, Iovis è certamente affine a Dyaus Pitar-, il Padre Cielo (greco Zeus); Iūno è collegata alla radice della giovinezza (yūnī è 'la giovane, forte, sana' in aind.); Venus corrisponde all'aind. vanas- 'amabilità, desiderio'; Minerva è fatto derivare da menes-va- confrontabile coll'aind. manasvat- 'pieno di spirito'. Neptūnus è stato accostato da Dumézil ad apāṃ napāt, il 'discendente delle acque', divinità presente anche nell'Avesta. Iānus, dio dei 'passaggi', degli inizi e delle transizioni, corrisponde al termine antico indiano yāna- 'che conduce, viaggio, veicolo'. Il dio/dea dei pastori Pales richiama l'antico indiano pāla- 'guardiano, pastore', da cui gopāla 'guardiano di vacche, mandriano', tipico epiteto di Kṛṣṇa nel contesto bucolico di Vṛndāvana, anche se secondo alcuni Pales deriva da palea 'paglia', che ha un parallelo nell'aind. pala-, dallo stesso significato.   

Da tutto ciò non vorrei concludere che i Latini avessero un rapporto particolarmente diretto con gli Indiani, storicamente arduo da sostenere, ma possiamo dire che hanno preservato in modo particolarmente fedele, per certi aspetti, l'eredità 'indoeuropea', le cui origini e vie devono essere chiarite...



sabato 1 ottobre 2011

Il Simposio dei giovani indologi a Parigi e l'avvenire dell'indologia

 
 
Ieri si è concluso, qui a Parigi, il terzo "International Indology Graduate Research Symposium" (vedi http://iigrs.byethost17.com/), iniziativa partita dall'Inghilterra, che ha coinvolto molti brillanti indologi italiani ormai sparsi per l'Europa, come gli studiosi di grammatica sanscrita Paolo Visigalli e Giovanni Ciotti, gli studiosi di filosofia Marco Ferrante, Daniele Cuneo e Elisa Ganser, e lo studioso di letteratura indo-persiana Svevo D'Onofrio. Oltre a loro, erano presenti studiosi britannici, francesi, tedeschi, cinesi, un'americana e l'implacabile Pandit indiano Gopabandhu Mishra, professore di sanscrito all'Università 'Paris 3', che ha messo alla prova con i suoi rapidissimi śloka (strofe sanscrite) quasi ogni oratore.

L'impressione generale è quella che l'indologia sia una disciplina molto articolata, che comprende linguistica, logica, metafisica, storia, filologia, epigrafia, antropologia sociale e religiosa, per di più suddivisa tra le tradizioni brahmanica (con tutte le sue suddivisioni interne), buddhista, giainista, islamica... un ascoltatore esperto di una branca dell'indologia si troverà facilmente spaesato in un'altra. Si può arrivare alla conclusione, come mi ha detto l'amico tedesco Sven Wortmann che ha partecipato al convegno, che l'indologia non è una disciplina. In effetti, come può lo studio di una civiltà configurarsi come una disciplina unica? E' vero che quello che accomuna gli studi presentati in questo convegno è generalmente un riferimento filologico al testo, ma i testi stessi possono essere di generi talmente differenti da rendere l'idea di un'unica 'scienza' indologica piuttosto improponibile. In ambito di studi classici, non esiste un'Ellenologia o una Latinologia. Esiste Letteratura greca, che può comprendere qualsiasi testo, ma si concentra su quelli a intento più specificamente letterario, e poi Storia greca, Filosofia greca, Filologia greca, Epigrafia greca, Papirologia... Ovviamente, il maggiore interesse in Occidente per la cultura greca ha permesso lo svilupparsi di una tradizione accademica più articolata.
D'altronde, è vero che non bisogna eccedere con le specializzazioni, e la civiltà indiana ha una sua identità complessiva che, per quanto variegata, si distingue per la sua specificità da quella di altre civiltà, con alcuni leitmotiv che risuonano simili nelle sue diverse tradizioni. In un convegno di 'indologi' però, si richiederebbe di non presupporre che gli ascoltatori conoscano il contesto del proprio oggetto di studio, e una introduzione per iniziare i profani, come suggerito alla fine del convegno, sarebbe auspicabile.   

Un'altra questione che sorge è: qual è lo scopo dello studio filologico? E' semplicemente il progredire della conoscenza, fine a se stessa, dei testi di un'antica civiltà o qualcosa d'altro? In ambito accademico, sembra non porsi mai il problema. I professori insegnano, aprendo orizzonti affascinanti, ma senza generalmente spiegare perché uno dovrebbe impegnarsi nello studio della loro materia. Eppure la questione andrebbe affrontata, non solo per ragioni esistenziali (qual è il senso vitale di questo studio) o pratiche (l'inserimento in un percorso professionale), ma anche per giustificare l'esistenza di una disciplina accademica, che rischia di non essere più sostenuta dallo Stato per mancanza di rilevanza economica e sociale o perché appare remota, priva di relazione con la cultura occidentale e con l'attualità. Probabilmente ogni indologo saprebbe cosa rispondere a questa questione. Il nostro interesse per la civiltà indiana è dovuto a qualche risonanza interna e consonanza che ci ha portato ad approfondirla e a trovarvi qualcosa di prezioso. Forse abbiamo pudore a dichiararlo, perché l'accademia richiede semplicemente che uno faccia 'scienza'. Eppure bisognerebbe esplicitare quale interesse abbia l'India antica per il mondo di oggi, quale messaggio universale, e a cosa mirino i nostri studi, che altrimenti possono apparire come un coacervo di astrusi problemi filologici che servono solo a pubblicare articoli su riviste specializzate. Le scienze umane hanno le loro radici nell'Umanesimo e nell'Idealismo, filosofie oggi poco di moda. E l'Orientalistica, pur essendo un aspetto dell'imperialismo europeo, era partita come il sogno di un nuovo Umanesimo (la Renaissance orientale), ma rischia di perdersi in uno storicismo positivistico che interessa a ben pochi. Spetta a noi della nuova generazione di indologi unire l'imprescindibile rigore filologico a una prospettiva di ampio respiro...

mercoledì 8 dicembre 2010

L'ardore e la storia


Domenica scorsa è apparso in televisione, a 'Che tempo che fa', Roberto Calasso per parlare del suo ultimo libro: "L'ardore". Stimolante e meritevole impresa di comprensione della civiltà indiana dei Veda. Per ora ho letto solo interviste, presentazioni e brevi brani, e non posso discutere dei contenuti e delle interpretazioni, ma quello che già è emerso con chiarezza è la presentazione del contesto storico dei Veda del tutto in linea con gli stereotipi accademici. Non si può dare la colpa a Calasso di aver seguito le fonti classiche dell'indologia, ma il fatto che uno studio di 15 anni (tanti ha richiesto la preparazione di quest'opera) non abbia fatto emergere le teorie alternative che da più di 15 anni sono state avanzate a proposito degli Arii vedici e del loro rapporto con la civiltà harappana, è significativo e abbastanza triste. Calasso ha dato una presentazione del 'paradosso di Frawley' (lo studioso americano che sostiene una forma dell'identità vedico-harappana): una civiltà materiale (quella harappana) senza parola e una parola (i Veda) senza tracce materiali. Però lo accetta senza riconoscerne l'intrinseca improbabilità, come un affascinante enigma. E' vero che la civiltà vedica ha lasciato poche tracce visibili, i sacrifici vedici non facevano uso di templi e (a parte qualche eccezione) di immagini, ma di capanni e fuochi sacri. D'altro lato, pensare che la civiltà harappana, che occupava un milione di kmq. e comprende centinaia di siti, alcuni molto vasti, e faceva uso di una complessa scrittura, sia scomparsa senza lasciare memoria di sé, è cosa decisamente insostenibile. E così, un'opera che svolgerà un'importante funzione divulgativa sui Veda continuerà a inculcare il solito mito della discesa degli Arii da luoghi misteriosi nel 1500 a.C., portando il cavallo e la ruota con raggi (che invece esistevano anche nella civiltà harappana: sono stati trovati denti di cavallo in vari siti, e la ruota raggiata appare sia come simbolo della scrittura dei sigilli sia nelle linee dipinte su apparenti ruote piene dei carretti di terracotta). E milioni di telespettatori hanno imparato questa versione della storia dell'India e degli Arii come un dato di fatto... non mi presterò anch'io a chiedere un contraddittorio, del resto la trasmissione di Fazio non è un documentario di storia, però sarebbe venuto il momento di poter diffondere versioni più fondate del contesto in cui è cresciuta la civiltà vedica, radice della civiltà dell'India e ramo possente del grande albero indoeuropeo...

lunedì 27 settembre 2010

Costruttori di ponti, costruttori di steccati



Un mese fa ci ha lasciati Raimon Panikkar, celebre filosofo e teologo, prolifico scrittore e promotore del dialogo interreligioso. Un uomo che già in partenza, già nell'aspetto fisico, univa India e Europa, essendo figlio di padre indiano induista e madre catalana cattolica. Questa duplice identità la viveva in modo paradossale, dichiarando: “Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo hindú, ma totalmente occidentale e totalmente orientale.” Visse in Spagna, in Italia, in India e negli Stati Uniti, venendo così in contatto personale con questi diversi mondi culturali e religiosi.  
Per una sua biografia, si può guardare la pagina del sito a lui dedicato, oppure, più estesamente, i post di Krishna Del Toso. Quello che colpisce, in Panikkar, è il suo unire diverse identità religiose, pur essendo sacerdote cattolico dal 1946: “Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano.” Questa compresenza e non-esclusività lo rendevano un simbolo del dialogo tra culture e religioni, un ponte vivente, oltre che un costruttore di ponti. Agli antipodi dell'esclusivismo religioso che caratterizza gran parte della Chiesa cattolica (nonostante gli encomiabili sforzi per il dialogo), la quale oggi aborrisce il sincretismo, pur avendo in sé elementi di tante culture e tradizioni religiose: tradizione biblica ebraica e filosofia greca, diritto e sacerdozio romano (il pontifex), riti misterici orientali (uso della mitria, Natale il 25 dicembre) e pagani (feste popolari, culti cristianizzati)... tra i santi della Chiesa era incluso anche il 'Bodhisattva', il futuro Buddha, col nome di 'Josaphat' (vedi).
Ma tra i costruttori di steccati non ci sono solo i cattolici conservatori, o i missionari protestanti che sono ancora più drastici nel loro portare il Cristianesimo in altre culture. Ci sono anche intellettuali illuministi e marxisti, che in nome del razionalismo materialista vedono l'Oriente come una minaccia, e cercano di difendere la cultura occidentale da pericolose contaminazioni. Nella prefazione di Edoardo Sanguineti a La grande festa di Vittorio Lanternari (illustre antropologo di inspirazione marxiana), si cita un'intervista del '78, in cui Lanternari si dichiarava preoccupato per la diffusione di uno scrittore come Hermann Hesse (anatema!) tra i giovani della nuova sinistra, che pretendevano di "trapiantare modelli della cultura orientale nella cultura occidentale." Ora, non voglio identificare Lanternari, che come antropologo era un promotore della conoscenza delle altre culture, solo come un costruttore di steccati, ma evidentemente il suo approccio era quello di un rifiuto dell'intromissione della cultura orientale in quella occidentale. Del resto, l'antropologia è nata con l'imperialismo eurocentrico, e ha cercato di conoscere le altre culture come dall'alto, secondo l'ottica della superiore ragione occidentale che studia l'irrazionalità 'primitiva' (come nel dualismo di Lévy-Bruhl). Qualcosa di analogo è accaduto nell'orientalismo nel senso di E.Said, dove l'Oriente è diventato il simbolo dell'irrazionalità, in quanto opposto al razionale Occidente.
E così, sia cattolici che razionalisti si trovano alleati in quella che potremmo chiamare orientofobia, la paura di un mondo diverso, in un certo senso oscuro e demoniaco... Proprio in coloro che vogliono essere più civili e più razionali, riemerge il classico dualismo arcaico tra l'Ordine (rappresentato dalla propria civiltà) e il Caos (rappresentato dall'Altro). Curiosamente, molti orientali (e gli Indiani in particolare) si rivelano molto meno inclini a questo dualismo rispetto agli occidentali. Nella sua apertura Panikkar si è rivelato molto indiano: gli intellettuali indiani, se non sono fondamentalisti o esasperatamente nazionalisti, tendono a pensare generosamente in termini universali e pluralisti, guardando l'umanità come un'unità piena di differenze individuali, ma non divisa in culture inconciliabili. L'India è abituata alla pluralità di filosofie e religioni al suo interno, e ha spesso avuto la tendenza a superare le divisioni in un'unità comprensiva, senza eliminare la pluralità. I maestri spirituali indiani, o tibetani, tendono a sottolineare l'uguaglianza di tutti gli esseri umani nelle esigenze fondamentali, mente gli occidentali continuano a parlare di conflitto di civiltà, di differenze incolmabili tra Oriente e Occidente... L'occidentale tende ad analizzare in categorie astratte, e a combattere o ad assimilare l'Altro. L'indiano (e chi, come il buddhista tibetano, deriva dall'India la visione del mondo) punta il dito su ciò che ci accomuna, più profondo di ciò che ci divide, e propone la sua filosofia come un metodo universale, non come un modo per 'indianizzare' o 'orientalizzare' l'Occidente. L'indiano guarda agli universali filosofici e psicologici, più che alle superficiali differenze culturali. Naturalmente anche l'India ha i suoi nazionalisti (in modo forse sempre più marcato), ma è dagli Inglesi che ha imparato il nazionalismo. Ancora Keyserling, agli inizi del Novecento, sosteneva che gli Indiani erano superiori al nazionalismo. E il più autentico pensiero indiano è universale, come ha dimostrato anche nella diffusione del Buddhismo in mezza Asia e persino del cosiddetto Induismo (nel Sudest asiatico e più recentemente in Occidente).
L'Occidente, soprattutto l'Europa, soffre di sindrome dell'assedio, vittima di un'immigrazione imponente (che per certi versi è un riflusso del colonialismo). D'altro lato, le culture non occidentali hanno un loro appeal sugli occidentali, soprattutto a livello di cultura 'popolare'. Per parlare dell'Asia, abbiamo la diffusione dello yoga e delle arti marziali, dell'Ayurveda e della medicina cinese o tibetana, della meditazione e delle 'filosofie orientali' fino all'autentica adesione religiosa a varie forme dell'Induismo e del Buddhismo. Fenomeni in espansione e ormai apparentemente stabili, che dovrebbero far pensare che il conservatorismo dei costruttori di steccati è condannato alla sconfitta, in un mondo di relazioni sempre più strette, e in un Occidente sempre meno sicuro della propria identità. Infatti, l'identità cattolica o cristiana e quella razionalista-positivista, difese dai conservatori, entrano in crisi, diventano permeabili, spesso vengono abbandonate. Rigurgiti identitari fanno bandiera dei simboli cristiani o etnici (padani...), ma sono operazioni di facciata, che tradiscono una certa artificiosità, sostenuta più dal sospetto per il diverso che da una identità solida, come mostrano anche le opposte iniziative di distruzione dei simboli altrui (rogo del Corano, rifiuto dei minareti o delle moschee). L'Occidente si deve rassegnare al pluralismo che ha spesso avuto la tendenza a rifiutare in nome di una verità assoluta che diventava anche Potere: prima quella dell'Impero romano, poi quella del Papato con la Santa Inquisizione, poi quella dell'imperialismo europeo, o della Scienza illuminista, del Socialismo reale, o anche del Mercato capitalista. Uniformare dall'alto e combattere o assimilare tutto ciò che si oppone. Ma la nuova tendenza non è più quella imperialista (falliti gli ultimi tentativi dell'America di Bush), è quella dello steccato, dell'autodifesa, dell'arroccamento nella propria rassicurante uniformità già data. 
Di fronte a queste scelte fallimentari e ottuse, è bene coltivare un'intelligente apertura, persino senza affermare immaginarie appartenenze identitarie, la cui utilità sembra stare solo nell'autocompiacimento e nel volersi distinguere dagli altri. Riconoscere che ognuno di noi è un individuo unico e al contempo un essere umano (o un essere vivente) come gli altri, e che il conflitto tra civiltà esiste fino a che crediamo in civiltà nettamente distinte e inconciliabili. Possiamo spaziare nelle varie culture, trovando ciò che ci appare più benefico e convincente, senza preclusioni. Persino un antico occidentale come Terenzio (d'altronde d'origine africana) era arrivato a scrivere: homo sum: humani nihil a me alienum puto "Sono un uomo: niente di umano io ritengo a me estraneo"...    

sabato 24 aprile 2010

Una nuova Accademia ateniese aperta all'India





Uno dei pochi personaggi non indiani del movimento d'opinione critico dell'invasione aria dell'India è un greco, Nicholas Kazanas, che si è formato come indologo nella SOAS di Londra e al Deccan College di Pune, ed è direttore dal 1980 di un istituto culturale di Atene che si chiama Omilos Meleton, che dovrebbe significare 'moltitudine di studi', e che è incentrato sullo studio della filosofia platonica e vedantica, ma che offre anche corsi di sanscrito, mitologia comparata ed economia politica. Ecco la home page in inglese: 
http://www.omilosmeleton.gr/en/default_en.asp
C'è un settore dedicato ad articoli di filosofia, dove si trova anche un interessante confronto tra i dialoghi di Platone e le Upanishad, e un settore di indologia, ricco di articoli (anche di lettere polemiche rivolte all'immancabile Witzel) che propongono una visione nuova della protostoria dell'India e della cronologia dei Veda, maturata dopo aver scoperto che l'archeologia dell'India non mostra traccia di un'invasione aria...   

lunedì 15 febbraio 2010

L'India e le origini della filosofia

Nella pregevole introduzione, scritta da Roberto Calasso, a La dottrina del sacrificio nei Brāhmaṇa, edizione italiana del fondamentale saggio di Sylvain Lévi di cui già ho scritto su questo blog, si leggono interessanti accenni alla posizione dell'India in una storia della filosofia che vada oltre la Grecia. Parlando del celebre Essai sur la nature et la fonction du sacrifice di Hubert e Mauss, debitori a Lévi di gran parte del materiale su cui costruire una teoria generale del sacrificio nelle varie culture umane, si osserva: "Esisteva dunque almeno una parte della terra in cui il sistema del sacrificio non era stato soltanto una complicata prassi liturgica, ma una articolata e ambiziosa teoria, che inevitabilmente tentava di dire ciò che è - assumendosi il ruolo che un giorno sarebbe stato della metafisica. E quella parte della terra era l'India dei Brāhmaṇa.[...] Se considerato da questo angolo, il saggio di Hubert e Mauss aveva il risultato di scardinare l'assetto acquisito della storia del pensiero (prima i greci, poi tutti gli altri - e soprattutto: nulla prima dei greci), in singolare convergenza con ciò che cinque anni prima si era compiuto nel primo volume della Allgemeine Geschichte der Philosophie di Deussen dove, invece di cominciare, come di regola, da Talete, si trattava del  Ṛgveda e dei Brāhmaṇa [...]"
Il volume di Deussen apparve nel 1915, eppure non sembra che la sua apertura abbia avuto molto seguito, a quasi cento anni di distanza. Ricordo ancora l'introduzione al manuale scolastico di storia della filosofia di Abbagnano, dove si negava al pensiero orientale un carattere pienamente filosofico, in quanto unito al religioso e non puramente 'teoretico'. Per poi assegnare, ovviamente, lunghi capitoli al pensiero cristiano tardo-antico e medievale... ripensandoci, si potrebbe sospettare che quando non si conosce qualcosa o non la si vuole trattare, si cerca di scartarla con motivazioni capziose. L'ignorare il pensiero indiano è frutto di pigrizia intellettuale e di provincialismo culturale, però ci sono alcune interessanti eccezioni in ambito filosofico. Una è quella dell'audace Atlante di filosofia recentemente pubblicato da Einaudi, opera di Elmar Holenstein, professore emerito dell'ETH di Zurigo, attualmente residente a Yokohama. E' un'opera sintetica che intende abbracciare, in alcune cartine con concise spiegazioni, il pensiero umano a livello mondiale. http://www.einaudi.it/libri/libro/elmar-holenstein/atlante-di-filosofia/978880619825
L'approccio è innovativo anche nell'uso dei termini che indicano le correnti filosofiche e religiose nelle lingue originali, in uno sforzo evidente di superare le lenti eurocentriche. Naturalmente non si può chiedere l'approfondimento a un'opera così vasta, ma per quanto riguarda l'India l'ho trovata di una straordinaria accuratezza da parte di un non specialista. 

Un altro esempio è l'opera di un giovane studioso francese di filosofia, Alexis Pinchard, che ho potuto conoscere personalmente nel mio soggiorno parigino del 2005-6. Si tratta della sua tesi, ormai da tempo pubblicata, Les langues de sagesse dans la Grèce et l'Inde anciennes. Si inserisce nella tradizione francese di Dumézil e Detienne, di studi indoeuropeistici e antropologici, affermando un'affinità tra pensiero indiano (già vedico) e greco antico sulle radici indoeuropee. Si veda una recensione qui:
http://www.bmcreview.org/2009/11/20091128.html

E qui si può anche acquistare online: http://www.erudist.net/fr/livre/?GCOI=26000100417580&fa=description

Naturalmente, Pinchard non si muoveva nell'ottica di una possibile origine indiana (sudasiatica) degli Indoeuropei, e quando gliene parlai rimase sconcertato. Mi chiese: i Greci venivano dall'India? Noi veniamo dall'India? Io gli dissi che sì, pensavo che era possibile, e che era più probabile che venissero dall'area indiana piuttosto che dalle steppe dell'Asia centrale, dove non c'era "beacoup de monde".

Se consideriamo la possibilità che i Greci venissero da un'area prossima a quella della civiltà vedica, questo potrebbe spiegare anche le misteriose affinità individuate da Pinchard... o da Marcello Durante, che aveva individuato formule poetiche molto simili nelle due culture, ipotizzando un influsso indoario sui protogreci sulle rive del Mar Caspio, prima delle rispettive migrazioni... 
Di fatto, le lingue stesse greca e sanscrita rivelano affinità straordinarie, e la lingua è il veicolo, lo strumento del pensiero. Mi ha spesso colpito la frequenza di termini astratti in entrambe le lingue, anche se forse con sfumature diverse: in un senso più oggettivo per i Greci, più soggettivo per gli Indiani. In Grecia gli astratti sono cose in sé, in India sono stati dell'essere cosciente, come la 'rishità' o la 'buddhità'. Di certo i diversi ambienti geografici e culturali hanno foggiato diverse linee di pensiero, ma le affinità rimangono, e le radici della filosofia greca potrebbero essere nelle remote regioni presso l'Hindukush, da cui un giorno i Danaoi (termine omerico per indicare i Greci) o Dānava (termine antico indiano e avestico per indicare un popolo nemico) si potrebbero essere allontanati per raggiungere le sponde del Mediterraneo...

P.S.: a proposito dei 'figli di Danu' rimando a un interessante articolo di D. Frawley, Vedic Origins of the Europeans: The Children of Danu http://r2dnainfo.blogspot.com/2010/01/vedic-origins-of-europeans-children-of.html, ricco di informazioni e di teorie stimolanti anche se da passare al vaglio.






venerdì 15 gennaio 2010

Arancia, ovvero l'inclinazione dell'elefante


Oltre ai prestiti recenti come Avatar, è sorprendente quante parole di uso comune siano d'origine indiana (se non proprio sanscrita). Una di queste è arancia o arancio. Secondo il "Vocabolario etimologico della lingua italiana" di O. Pianigiani, viene dal basso latino arangia e aurantia, "accostato per etimologia popolare al lat. AURUM, oro: dall'arab. NARANGI =  pers. NARANG' e questo dal sscr. NÂGA-RANG'A, che propr. vale inclinazione dell'elefante ossia frutto favorito dagli elefanti. La N iniziale scambiata per l'articolo UN venne omessa come in Anchina per Nanchina. Dagli arabi la voce passò nella Spagna e da questa nelle altre lingue romanze."
Ora, in sanscrito nāgaraṅga- significa davvero 'arancio', nel senso dell'albero. Ed è vero che nāga- può indicare l'elefante, ma anche il serpente, alcune piante, il piombo, e altro ancora. E raṅga- viene sì dalla radice rañj-, che può voler dire 'essere affetto, eccitato, deliziato da', ma anche 'essere colorato, arrossarsi'. E infatti il primo significato di raṅga- è 'colore, tinta', poi 'luogo di pubblico divertimento, teatro, arena', ma che voglia dire 'inclinazione' non risulta. E non ho trovato nemmeno conferma che gli elefanti siano particolarmente inclini a mangiare arance. E allora, forse conviene percorrere altre strade. Il senso di 'colore' è molto verosimile considerato che il frutto dell'arancio si distingue prima di tutto per il suo colore così caratteristico e luminoso (tanto che, come già visto, in latino è stato deformato in aurantia, aurantium, e in francese diventa orange, sempre richiamando l'oro). Allora, 'l'albero che ha i frutti del colore del nāga', ma in che senso? Non certo nel senso dell'elefante. Forse del serpente?
E' vero che il 'Golden Tree Snake' in India presenta dei segni rossi-arancioni (http://en.wikipedia.org/wiki/Chrysopelea), ma sembra un po' poco. Tuttavia, abbiamo accennato che alcune piante sono chiamate nāga- (forse perché abitate da serpenti?) e in particolare  - osserva il dizionario di Monier-Williams - la Mesua Roxburghii e la Rottlera Tinctoria.


La prima (qui a sinistra), diffusa in India, Nepal e Shri Lanka, è detta anche nāgakesara-, tradotto in inglese 'Cobra's saffron', infatti i suoi fiori hanno molti pistilli di color giallo zafferrano, con petali bianchi come quelli del fiore dell'arancio
(http://www.flowersofindia.net/catalog/slides/Nag%20Kesar.html).
La seconda è una pianta più tipica del sud-est dell'India, ma come dice il nome, è usata per la tintura delle stoffe, dando un colore giallo dorato usato già dall'antichità per colorare gli abiti 'color zafferano' dei religiosi (http://www.griffindyeworks.com/store/dyes-natural-dyes-and-extracts-c-1_3/kamala-extract-p-57: l'esempio qui in basso a destra).

Il nome comune in India per questa tintura è kamala, che in sanscrito, secondo Monier-Williams, in un testo indica un'arancia. Non solo, kamalā (a volte pronunciato komala o komola) si trova in assamese, bengali e oriya per indicare l'arancia
(http://www.uni-graz.at/~katzer/engl/Citr_sin.html).
Questo potrebbe suggerire che in India il colore dell'arancia sia stato associato al colore dello 'zafferano del serpente' o della tinta kamala della Rottlera (detta anche 'orange kamala'
http://www.flickr.com/photos/91314344@N00/2642064030/ ), e quindi sia stato chiamato 'che ha il colore del(l'albero) Nāga': nāgaraṅga (probabilmente indicando prima il frutto che l'albero). Da questa forma, dovrebbe essere derivata una semplificata, nāraṅga-, ben attestata anche in sanscrito per indicare l'arancio, e ancora usata in hindi per il frutto, al femminile (nāraṅgī). Da questa forma di tipo pracrito (della lingua parlata) è sorta chiaramente quella persiana nārang, che si è trasmessa poi all'arabo nāranj, e da lì all'Europa, alla naranja spagnola e alla nostra arancia. Perciò, le illazioni su un'origine non indoaria (dravidica o altro) del termine appaiono ingiustificate; comunque non ci sono dubbi sull'origine indiana del nome, e pare certo che venga originariamente dall'India il frutto stesso, più precisamente dall'India nordorientale o sudorientale, dove diverse varietà sono state sfruttate da almeno 7000 anni (http://www.buzzle.com/articles/history-of-orange-fruit.html).

Per concludere, in questi giorni in cui le arance sono diventate, in Calabria, una sorta di 'pomi della discordia', la storia di questo nome e di come si è trasmesso dall'India insieme al frutto può farci ricordare come l'umanità sia unita da antichi vincoli, suggellati dall'universale amore per ciò che è buono, come la polpa dell'arancia, e bello, come il suo colore...






domenica 15 novembre 2009

La stagione di gloria degli Indoarii nel Vicino Oriente

Nel post sugli Etruschi, avevo accennato alla presenza di Indoarii in Anatolia e nel Vicino Oriente. Questa presenza inaspettata è emersa grazie alla scoperta del trattato tra Matiwaza di Mitanni e il re ittita Suppiliuluma, che presentava chiaramente le divinità vediche Mitra, Varua, Indra e i Nāsatya, e dei nomi indoarii dei regnanti di Mitanni, come il fondatore Kirta, che richiama il sanscrito kīrti- 'gloria', oppure Artadāma (scr. tadhāman- 'che dimora nell'ordine cosmico'), o Tu(i)shra(t)ta (scr. *tviratha-, tvearatha- 'che ha carri impetuosi o splendenti'). Il regno di Mitanni si estese sull'Alta Mesopotamia fino alla costa mediterranea, come mostra la cartina, ed era abitato prevalentemente da Hurriti, una popolazione di lingua non indoeuropea; la dinastia però era evidentemente di origini indoarie, e regnò sulla regione dal XV al XIII sec. a.C., giungendo a farsi vassalla l'Assiria, da cui finì conquistato. Il culmine del potere fu agli inizi del XIV secolo, sotto Shuttarna II (o Sudarna, equivalente secondo Dumont a *Sudharaa 'che sostiene bene'), che diede sua figlia Kilu-hepa in sposa al faraone Amenhotep III. Questi sposò anche la figlia del successore di Shuttarna, Tushratta, chiamata Tadu-hepa, in seguito presa in moglie anche da Amenhotep IV, più noto come Akhenaton, il famoso faraone 'monoteista'. Ci sono rimaste anche lettere di Tushratta ad Akhenaton, una a proposito del dono di statue d'oro di lui stesso e della figlia Tadu-hepa, promesse come dote per il suo matrimonio con Amenhotep III (http://en.wikipedia.org/wiki/Akhenaten).

Ciò dimostra l'importanza di Mitanni (di cui vediamo qui a destra un sigillo reale) e della sua dinastia 'indo-aria' nel panorama delle grandi potenze del Vicino Oriente. Ma meno nota è la presenza indo-aria a Babilonia, nella cosiddetta dinastia Cassita. Un interessante studio sulla lingua di questa dinastia è quello di A. Ancillotti, "La lingua dei Cassiti", del 1981. Nell'introduzione storica, nota che il fondatore della dinastia è ritenuto Gandaš, alla fine del XVIII sec. a.C., perché primo a insediarsi all'interno del territorio babilonese, provenendo dall'Iran. Ma l'insediamento della dinastia a Babilonia lo data all'inizio del XVI secolo, con Agum II. Babilonia fu ribattezzata Karanduniaš, e fu poi fondata una nuova capitale, Dur-Kurigalzu, in onore del re Kurigalzu del XV secolo. Secondo Ancillotti, i Cassiti portarono un sistema feudale, articolato in monarchie locali tributarie del re di Babilonia. Si afferma la datazione basata sul numero degli anni di regno del sovrano, e si istallano le pietre di confine (kudurru), sulle quali, dal 1200 a.C., si incontra l'uso di nomi di famiglia, prima non attestato. Particolarmente significativa è l'introduzione della cavalleria da guerra e dei carri da guerra, "insieme ad una evoluta arte ippologica". Questo è un elemento certamente notevole in rapporto all'identità indoaria di questa dinastia, visto che nel XIV secolo l'arte dell'allevamento dei cavalli fu illustrata con grande precisione da Kikkuli, addestratore di cavalli (assussanni, cfr. scr. aśva-sani- 'che ottiene o procura cavalli') di Mitanni, nel suo trattato scritto in ittita, ma con alcuni termini chiaramente indoarii, quali aika-, tera-, panza-, satta-, nā-wartanna, corrispondenti a scr. eka-, tri-, pañca-, nava-vartana 'uno, tre, cinque, sette, nove giri'. Documenti di Nuzi, nella Mesopotamia settentrionale, sotto l'influsso di Mitanni, troviamo aggettivi per i cavalli molto simili a quelli sanscriti: babru-nnu (scr. babhru, 'marrone'), parita-nnu (scr. palita, 'grigio'), e pinkara-nnu (scr. pigala, 'fulvo'). Nelle lettere di Amarna (capitale di Akhenaton in Egitto) e nei testi accadici, si menzionano i maryannu, guerrieri conduttori di carri, il cui nome è stato confrontato con il sanscrito marya- 'giovane guerriero', con il solito suffisso hurrita -nnu.

Ora, l'Ancillotti individua analoghi termini indoarii in contesto cassita. Già prima di lui si erano riconosciuti alcuni teonimi arii, come Suriyaš, scr. Sūrya 'Sole'. Ma Ancillotti si spinge oltre. Riconosce come aria gran parte dell'onomastica, e appunto del lessico dell'ippologia, oltre a vari teonimi. Il lessico relativo al carro da guerra comprende alaka (scr. araka- 'raggio della ruota'), akkandaš (scr. aṅkānta-s 'cerchione'), ecc.; le denominazioni dei tipi di cavalli sono sirpi (scr. śilpī 'pezzato'), timiraš (scr. timira-s 'scuro').

Tra i nomi di divinità, che si trovano anche nei nomi di sovrani, abbiamo Indaš, corrispondente al vedico Indra; Maruttaš, scr. māruta-s, che indica gli dèi della tempesta; Bugaš, scr. bhaga-s, nome di uno degli dèi Āditya o anche genericamente 'dispensatore' e 'fortuna, prosperità, maestà', ecc.

Ancillotti passa in rassegna numerosi termini, spiegandone la possibile origine aria secondo certe leggi fonetiche, e arriva a sostenere che il nome che i Cassiti (così chiamati dagli appellativi accadici e greci) davano a se stessi, era 'Kuru'. A chiunque conosca un po' la tradizione indiana, questo nome evoca immediatamente il Mahābhārata e Kurukshetra, il territorio dove si è combattuta la battaglia, già sacro per la presenza del fiume Sarasvatī.

Come arriva a questa conclusione? Perché il già menzionato nome di un re cassita, Kurigalzu, è tradotto in accadico come 'pastore dei Cassiti', e Ancillotti ritiene che sia -galzu a significare 'pastore'. Esiste anche il nome Kuriyani, da accostare a scr. yānī 'conduttore', quindi 'conduttor dei Kuru'. Non solo, un nome proprio maschile e nome di cavallo è Kurukšebugaš, da un ipotetico Kuru-kaya-, dove kaya- indica in sanscrito 'dimora' e anche 'che risiede', dunque il termine potrebbe essere secondo Ancillotti 'Bugaš risiedente tra i Kuru' o 'Bugaš è la dimora dei Kuru'. Ma kaya- può significare anche 'famiglia, stirpe', certo in quanto 'casa, casata', quindi Kurukšebugaš potrebbe anche essere 'fortuna della stirpe dei Kuru'.

Ancillotti è un invasionista, rispetto all'India, quindi ritiene che i Kuru fossero una tribù centrasiatica che è andata sia in Vicino Oriente che nel subcontinente indiano, ma noi possiamo supporre che essa sia invece d'origine indiana, come mostrano i nomi di divinità, i termini relativi ai carri e ai cavalli.

Tirando le fila, possiamo ipotizzare che a partire dal XVIII sec. a.C. gruppi di guerrieri indiani siano partiti verso occidente, in un periodo effettivamente segnato nell'India nordoccidentale da crisi ambientali e conflitti, e si siano affermati grazie alla loro capacità di combattere con carri trainati da cavalli, ma certo anche a capacità politiche e amministrative. Questi appaiono ben presenti nel Rigveda, che io dato nella prima metà del II mill. a.C., con una fase particolarmente importante intorno al 1900 a.C., quando si dovrebbe situare la Battaglia dei Dieci Re. Secondo la mia cronologia delle genealogie, lo stesso Kuru, capostipite della dinastia, si può situare intorno al 1886 a.C., quindi ben prima dell'arrivo dei Cassiti in Mesopotamia, che di conseguenza sarebbero potuti essere dei Kuru, anche se probabilmente mescolati con popolazioni di altra etnia assimilate lungo il percorso verso la valle del Tigri e dell'Eufrate.

Questi guerrieri, che appartenessero ai Kuru o ad altre stirpi aristocratiche, mantennero una loro identità culturale per alcuni secoli, come attestato nell'onomastica e dai teonimi, ma naturalmente, come minoranza, ebbero la tendenza ad assimilarsi alle culture locali. E' affascinante immaginare dei principi di origine indiana alla guida di regni mediorientali, a contatto con altre antiche civiltà, divisi tra il culto dei loro dèi ancestrali e quelli dei loro sudditi, tenaci nel mantenere alcune tradizioni della loro terra lontana. Quando si persero nell'oblio cosa lasciarono in eredità? Certamente i loro carri e cavalli, ma forse anche altro. Parte della loro lingua potrebbe essere rimasta nei dialetti curdi e nell'armeno, visto che curdi e armeni hanno vissuto nel territorio del regno di Mitanni e del successivo regno di Shupria (confrontabile col scr. supriya- 'molto piacevole') presso il lago Van (http://en.wikipedia.org/wiki/Shupria).

Geneticamente, si è notato che l'aplogruppo R1a-M17 (associabile agli Indoarii) ha una frequenza di circa il 6,9% in Turchia, è più frequente nelle parti orientali, ed è analogo a quello che si trova in Armenia: ("The higher frequency of R1a1-M17 lineages in eastern Turkey is consistent with an entry into Anatolia via the Iranian plateau where the associated variance is appreciably higher (Quintana-Murci et al. 2001). The most common R1a1-M17 haplotype in Armenia (Weale et al. 2001)matches the most common in Turkey." Vedi Excavating Y-chromosome haplotype strata in Anatolia http://hpgl.stanford.edu/publications/HG_2004_v114_p127-148.pdf).

Inoltre, se la tesi sugli etruschi di Bernardini Marzolla è giusta, la loro eredità culturale si sarebbe spinta fino all'Italia, tramite l'Anatolia. Si potrebbe dire che il II millennio a.C. sia stata la fase dell'espansione indiana verso occidente, un'espansione di piccole élites, ormai separate dalla madrepatria. Una simile espansione non si sarebbe ripetuta nel millennio successivo, quando si affermò la potenza persiana sull'altopiano iranico, e la civiltà dell'India trovò un nuovo baricentro nella valle del Gange.

mercoledì 7 ottobre 2009

Il sanscrito e le lingue dell'Italia antica: il caso dell'etrusco

Per chi pensasse che il sanscrito ha dei rapporti molto remoti con le lingue dell'Italia, nel quadro della vasta famiglia indoeuropea, potrà essere sorpreso nello scoprire che vi sono degli studi tendenti a rintracciare una presenza molto più diretta dell'antico indoario, nell'etrusco (principalmente con le opere di Bernardini Marzolla e di Caltagirone, la cui copertina appare qui a sinistra, ma anche quella di L. Magini "L'etrusco, lingua dall'Oriente indoeuropeo", del 2007) e nel siculo (con "La lingua dei Siculi" di Caltagirone, vedi anche qui).
A proposito dell'etrusco, ho tra le mani il libro "La parola agli Etruschi" di Piero Bernardini Marzolla, edizioni ETS, del 2005.


L'autore è un filologo classico, ex normalista (compagno di Ambrosini e Citati), nato a Perugia nel 1929, già autore nel 1984 di "L'etrusco - una lingua ritrovata" (ed. Mondadori). Lui stesso asserisce, nella premessa al testo del 2005, che la ricerca delle corrispondenze tra etrusco e sanscrito era partita dalla misteriosa parola itanim di una lamina d'oro di Pyrgi, che il Marzolla accostò al scr. idānīm "ora". Trovò poi hara su una pallottola di piombo per la fionda, corrispondente al scr. hara- "distruttore". Su una coppa, mleci kania è accostato a scr. mlecchī kanyā "barbara fanciulla". Alle parole ziva-s e lup-u, lup-u-ce, frequenti negli epitaffi, fanno riscontro scr. jīv- "vivere" e lup- "scomparire (morire)". Il libro prosegue con la spiegazione delle mutazioni fonetiche in etrusco, con l'elencazione dei suffissi, dei prefissi e dei composti di origine indoaria, con le ipotesi sulle origini degli Etruschi. Ipotesi che si concentrano sull'Anatolia, non solo per la tradizione riportata da Erodoto che voleva i Tirreni emigrati dalla Lidia in seguito a una carestia, ma anche per le iscrizioni simili all'etrusco dell'isola di Lemno, per l'elemento tarχ-, apparentemente anatolico, in vari nomi etruschi, per affinità figurative tra i rilievi volterrani e quelli di Xanthos in Licia e di Lemno. A tutto ciò possiamo aggiungere i risultati delle ricerche genetiche (vedi qui un articolo di sintesi), che ci mostrano le affinità degli abitanti di zone che possono aver mantenuto ascendenze etrusche quali Murlo, Volterra e del Casentino con gli attuali abitanti dell'Anatolia. E' notevole che anche gli abitanti dell'isola di Lemno si siano rivelati affini.
Quello che suggerisce il Marzolla è che la presenza dell'antico indoario nella lingua etrusca è dovuta alla presenza indoaria nel regno di Mitanni e nel Vicino Oriente del II millennio a.C., soprattutto nell'onomastica, e suggerisce che la lingua di questi indoarii sia sopravvissuta anche dopo il XIV sec. a.C., epoca del trattato di Mitanni che menziona le divinità vediche Indra, Mitra-Varuṇa e Nāsatya. Egli nota anche che dopo il 1200 a.C., con l'arrivo dei Popoli del Mare, si è avuto uno sconvolgimento del Vicino Oriente e del Mediterraneo, che ha provocato un periodo oscuro nella storia dell'Asia Minore e della Grecia. Marzolla si affida dunque alla testimonianza erodotea (Storie I.94), e suppone una migrazione dall'Anatolia analoga a quella greca degli abitanti di Focea. Un punto importante è che secondo lui "resta aperta la questione se l'etrusco sia una lingua non indoeuropea contaminata da una lingua di stampo indiano o, al contrario, una lingua di stampo indiano "sommersa" da una non indoeuropea."
Quello che potremmo ipotizzare è che nel popolo protoetrusco ci fosse una certa componente culturale indoaria dovuta ai regnanti di Mitanni e ai 'Marjanni', i guerrieri su carro con nomi indoarii che si erano diffusi nel Vicino Oriente, portatori di una scienza dell'allevamento del cavallo espressa nel trattato di Kikkuli di Mitanni. Tale componente culturale potrebbe essere legata a un semplice influsso, ma forse più plausibilmente alla presenza all'interno del popolo protoetrusco di un'élite guerriera (e forse anche sacerdotale) che portò con sé nomi propri e termini indoarii. A questo ci spingerebbero anche alcuni nomi come il gentilizio Arianaś citato dal Magini, presente nel territorio fiesolano, o lo stesso nome che gli Etruschi si davano, Rasna, riportato alla radice del sanscrito rājā. Il Magini riporta (op.cit., pp. 73-4) l'affermazione di Dionisio di Alicarnasso secondo cui gli Etruschi prendevano il nome dal loro capo Rasenna. Ora, questo nome ci riporta al sanscrito rājana- 'appartenente a una famiglia regale' o a rājanya- 'regale, uomo della casta regale o militare', e anche nome di una particolare famiglia di guerrieri (vedi il dizionario di Monier-Williams).
Torniamo quindi al lessico individuato dal Bernardini Marzolla. Nel corso del libro propone varie traduzioni di iscrizioni con l'aiuto dell'indoario, e alla fine riassume il tutto in un vocabolario etimologico etrusco. Abbiamo ais che significa 'dio' da scr. īś, īśa 'signore', aiśa 'regale, divino'; aus'a 'ardore', da scr. oa 'combustione, ardore'; capi, kapi, qapi, χapi 'qualcuno' da scr. ko'pi (da kas api); cumere 'fanciullo, principe' da scr. kumāra; eniaca 'altro' da scr. anyaka; rz 're' da scr. rājā; uasu 'ricchezza' da scr. vasu; uaz 'trofeo' da scr. vāja; Velaθri 'Volterra' da scr. velā 'confine; costa' e adri 'roccia, montagna' ('Monte di confine' o 'Monte costiero') e molti altri.
Vediamo termini religiosi e aristocratici ma anche del tutto comuni: se le interpretazioni con relative etimologie sono corrette, indicherebbe una presenza molto pervasiva dell'indoario, non maggioritaria ma tale da presupporre più di un vago influsso. Insomma, un elemento importante di quella irradiazione della civiltà dell'India verificatasi nell'antichità e nel modo più intenso forse nel II millennio a.C. dopo la profonda crisi che investì il subcontinente indiano. Un'irradiazione che ha raggiunto la lontana Italia, e che ha dato molto anche alla civiltà romana. In un recente convegno sull'argomento si è riaffermato che la fondazione di Roma seguiva un rituale etrusco, e questo ci potrebbe richiamare all'antica concezione indiana della città, anch'essa quadrangolare, con le strade ortogonali, fondata con la delimitazione dello spazio sacro segnato da fossati e da mura. E in etrusco, il nome riconosciuto della città è spur, analogo al vedico pur-, sanscrito pura- 'città'... Non solo, nel Dizionario della Lingua Etrusca di M. Pittau, si trova, accanto a spurana 'civico, urbano, pubblico', la variante [s]purane, e il pomerio, ovvero lo spazio sacro intorno alle mura, è identificato nel termine purapu. Esiste poi il nome al genitivo Puruhenas, gentilizio maschile che il Bernardini Marzolla associa all'importante epiteto vedico puró-han, 'distruttore di cittadelle, di fortezze', attribuito al dio guerriero Indra, ed analogo (semanticamente) all'omerico πτολίπορθος.












domenica 20 settembre 2009

Il sanscrito è più coltivato in Giappone che in India?


In seguito al grande convegno internazionale degli studi sanscriti tenutasi recentemente a Kyoto, in Giappone, un politico indo-americano, Rajan Zed, attivo nel campo interreligioso ha notato che in India il sanscrito è piuttosto trascurato, e ha esortato a politiche per rilanciarne lo studio. Ecco un estratto dall'articolo che è circolato in rete:

"Acclaimed Hindu statesman Rajan Zed, in a statement in Nevada (USA) today, while lauding Kyoto University, strongly criticized India Government for not doing enough for Sanskrit promotion. Sanskrit should be restored to its rightful place and needed to be brought to the mainstream and hidden scientific truths in ancient Sanskrit literature should be brought to light, Zed pointed out.
Jointly organized by International Association of Sanskrit Studies, Kyoto University, Association for the Study of the History of Indian Thought, Japan Society for the Promotion of Science, Mitsubishi Foundation, etc.; this five-day 14th World Sanskrit Conference covered a wide variety of topics, including:
Vedas, linguistics, epics and Puranas, Agamas and Tantras, vyakarana, scientific literature, ritual studies, yoga, Parsi Sanskrit, Sanskrit law, Mahabharata, Yogin versus Vedantin, Sanskrit riddles, Samkhya thought, dharma, Kashmir Saivism, Solar and lunar lines in the Sanskrit epics, miscarriage in ayurvedic literature, relationship between God and the world, etc.

Zed, who is president or Universal Society of Hinduism, asked India Government to do much more for the development, propagation, encouragement and promotion of Sanskrit in India and the world, which was essential for the development of India and preservation of its cultural heritage. Sanskrit also provided the theoretical foundation of ancient sciences.
Rajan Zed stressed that India Government should establish a world-level national library of Sanskrit besides Sanskrit libraries in each state; make Sanskrit available as a subject in all secondary, under-graduate, graduate, and doctoral schools in India; provide Sanskrit teachers’ training courses in all the states; enrich manuscripts collections; publish rare manuscripts; provide easily accessible distance learning courses for learners world over; coordinate the Sanskrit research done around the globe; frequently organize world level research conferences; provide generous funding for research projects; etc."




Ora, naturalmente non si può sostenere che il sanscrito sia più studiato in Giappone che in India (l'università di Kyoto sembra essere l'unico centro accademico giapponese veramente importante per questi studi, come mi è stato comunicato da un professore di sanscrito di Tokyo), tuttavia ho avuto spesso conferma che il sanscrito non è particolarmente coltivato nell'India attuale. La globalizzazione economica e culturale attira verso le lingue straniere moderne, e la tradizione sanscrita sembra evidentemente qualcosa di inutile per il progresso capitalistico... i giovani indiani sono lanciati verso materie tecniche ed economiche, che promettono successo e ricchezza. La mia personale esperienza all'Istituto Italiano di Cultura di Nuova Delhi, dove i giovani indiani studiavano per poter fare le guide turistiche o per studiare in Italia management o design, mi ha rivelato una conoscenza decisamente approssimativa del sanscrito da parte loro, con pochissime eccezioni, nonostante venga studiato a scuola un po' come da noi il latino. Certamente quest'India lanciata verso il futuro e aperta al mondo può apparire un paese dinamico e promettente, ma l'oblio delle radici culturali rischia di appiattirla in un'occidentalizzazione più pesante di quella operata dall'impero britannico. Se l'India vuole mantenere la sua specificità nel mondo non può prescindere dalla tradizione sanscrita, che costituisce un patrimonio unico e straordinario per vastità, ricchezza e profondità, e di valore universale, come dimostra un convegno come quello di Kyoto, dove gli studiosi giapponesi, europei e americani, sono molto più numerosi di quelli indiani.

domenica 30 agosto 2009

La dedica di Gorresio al re Carlo Alberto ai primordi dell'indologia italiana

Durante le ricerche di questa estate ho scoperto una miniera di testi classici dell'indologia (anche il Vedic Index) digitalizzati dall'Università di Toronto, tra cui lo storico Ramayana di Gaspare Gorresio, che si può leggere alla pagina:
http://www.archive.org/stream/ramayanapoemaind01valmuoft#page/n10/mode/1up


Si tratta della prima edizione, del 1843, dedicata "a Sua Sacra Real Maestà Carlo Alberto". Infatti Gorresio (qui a sinistra) era piemontese, fondatore della scuola di indologia dell'Università di Torino. Su invito dello stesso Carlo Alberto aveva studiato sanscrito a Parigi con Burnouf e fu il primo professore di Lingua e Letteratura Sanscrita in Italia (dal 1852 al 1855). Fu anche senatore del Regno d'Italia nel 1880, accademico dei Lincei e della Crusca.


Ma certamente l'opera a cui è legato il suo nome e la sua memoria nella tradizione internazionale degli studi indiani è la fondamentale edizione del Rāmāyaa. Dunque, così la introduceva nella sua prima apparizione:


"Sire, un mezzo secolo appena addietro, aperta l'India ai commerzj delle genti Europee, s'incominciarono a scoprire diffusi per le remote regioni del Gange i grandi e numerosi monumenti letterarj d'un'antica e splendida civiltà infino a quell'ora appena presentiti. L'abbondanza, la varietà, e, per quanto da alcuni scarsi saggj si poteva congetturare, la nobiltà e l'importanza di que' vetusti monumenti d'un popolo, che già ai tempi della scuola Alessandrina aveva fama di tanta sapienza, tutto induceva a presagire, che da quella antica e vasta letteratura dovesse emergere gran luce per una conoscenza più compiuta dell'antichità e delle prische tradizioni, per rintracciare l'avviamento e il processo dell'intelligenza umana, per isvellere errori, che le scuole del secolo passato accreditarono con maligno intendimento, per lo studio intimo insomma della storia dell'umanità. Un nobile ardore s'accese immantinente tra gli Europei: gli studj sanscriti impresi con grande efficacia ed amore crebbero e si diffusero rapidamente per l'Europa. Dentro pochi anni l'Inghilterra, la Francia, l'Allemagna, ed altri paesi settentrionali ebbero cattedre di lingua e letteratura sanscrita [...] A questo movimento degli ingegni europei non s'era anco apertamente associato l'impulso delle intelligenze italiane. Mercè la generosa e splendida munificenza Vostra, o Sire, l'Italia entra ora degnamente anch'essa in possesso dei nuovi studj, dai quali, se molto già s'è infino ad ora ottenuto, molto più ancora rimane ad ottenersi. Voi, o Sire, incoraggiaste, proteggeste, secondaste con ogni maniera di sovrano favore questi miei studj [...] Or ecco io offro e consacro a Voi, Augustissimo Re [..] questa primizia di studj faticosi e lunghi, nata e cresciuta sotto i regali Vostri auspicj, base d'un gran monumento, che verrò a mano a mano continuando. [...]

Un documento storico, che fonda l'indologia italiana riconoscendo mezzo secolo di ritardo rispetto a quella di altri Paesi europei. Si rievoca in modo molto suggestivo l'attesa di quella rivelazione che era la prima diretta conoscenza della civiltà dell'India vagheggiata sin dai tempi dell'Ellenismo (la 'scuola Alessandrina'), all'interno di un quadro più vasto della storia dell'umanità. E' sorprendente anche l'incoraggiamento del re Carlo Alberto, che si rivela un sovrano illuminato e innovatore anche in questo campo.

Cosa è rimasto di quell'entusiasmo oggi? Quanto sappiamo di più dell'India? Sicuramente si sono fatte molte accurate edizioni critiche di testi fondamentali, si è tratteggiata una storia del pensiero e della letteratura, ma molto ancora rimane oscuro della storia di quella parte del mondo anche agli specialisti, che hanno tra l'altro attuato - ne siamo ormai convinti - distorsioni sistematiche dei processi che hanno portato allo sviluppo di quella civiltà. Per non parlare del grande pubblico, che in gran parte ha idee stereotipate e vaghe dell'India antica e moderna. Di fatto, la rivelazione dell'India non si è ancora pienamente realizzata per l'Occidente, molti veli restano ancora da squarciare, molti tesori da dissotterrare...

venerdì 12 giugno 2009

Britannici e Indiani a confronto sul concetto di 'Aryan'

Come ha scritto Koenraad Elst, vivace indologo fiammingo, in Asterisk in Bhāropīyasthān, recente (del 2007) raccolta di scritti sul dibattito riguardo all'invasione aria dell'India, la teoria che sosteneva tale invasione giustificò la presenza dei britannici tra i loro 'cugini ariani' in India, trattandosi semplicemente della seconda ondata di insediamento ario in quella regione. Tale teoria fornì un modello fondamentale della sorgente visione del mondo razzista: 1) i dinamici bianchi entrarono nella terra degli indolenti nativi scuri; 2) essendo superiori, i bianchi stabilirono il loro dominio e imposero la loro lingua ai nativi; 3) essendo consci della razza, stabilirono il sistema castale per preservare la loro separatezza razziale; 4) ma essendo insufficientemente fanatici riguardo alla loro purezza razziale, qualche mescolamento con i nativi ebbe luogo lo stesso, rendendo gli Ariani indiani più scuri dei loro cugini europei e corrispondentemente meno intelligenti e dinamici; 5) quindi, per il loro bene potevano elevarsi grazie a una nuova ondata di puri colonizzatori ariani (op. cit., p.74).
Come questa descrizione non sia esagerata, lo mostra un brano citato da D.K. Chakrabarti in The Battle for Ancient India. An Essay in the Sociopolitics of Indian Archaeology (New Delhi 2008), dove l'esploratore A.C.L. Carlleyle scrive nel 1879:
We British Europeans are Aryans, and far more pure and genuine Aryans than the Hindus, and no talk of the Hindus can alter our race [...] It is the Hindus who have altered and deteriorated, and not we! The Hindu has become the coffee dregs, while we have remained the cream of the Aryan race. [...] The Hindu has become a sooty, dingy-coloured earthen pot, by rubbing against black aborigines rather too freely; and he consequently pretends to despise the white porcelain bowl.
Quello che colpisce in questo brano, oltre al razzismo esplicito e offensivo, sono le allusioni al disprezzo da parte degli 'Hindu'. Tanto astio appare una risposta piena di risentimento verso accuse di degenerazione da parte degli Indiani verso gli Inglesi. In effetti, nella tradizione indiana, molti popoli stranieri, tra cui i Persiani e i Greci (Yavana) erano considerati Kshatriya (membri della casta guerriera) degenerati per il loro abbandono del puro Dharma (la legge morale e religiosa), ed è possibile che gli Indiani dell'epoca applicassero tale antica nozione anche agli Inglesi, dopo aver accettato la parentela dei parlanti lingue indoeuropee. Il razzismo che esalta la propria superiore purezza evidente dal biancore della pelle sembrerebbe la risposta britannica a un disprezzo morale da parte degli Indiani: risposta piuttosto puerile, e che manifesta l'ottica decisamente materialista che sostiene il razzismo.
Molto diverse sono le conclusioni a cui arriva, dallo stesso concetto di 'Aryan', inteso però principalmente in senso linguistico, uno studioso indiano, Pandit Lachhmi Dhar Kalla, che pubblicò nel 1930 The Home of the Aryas, dove sostiene, con varie ragioni (tra cui quella dell'unitarietà tra accento vedico e protoindoeuropeo), che la patria originaria degli 'Aryas', ovvero i Protoindoeuropei, era l'Himalaya nordoccidentale. Nella conclusione, a p.106 e 107, afferma che gli Arii in passato hanno sempre sostenuto una sintesi con le razze che hanno incontrato: in India ci hanno dato il concetto del Bharata Varsha, l'India unita di tutte le razze (anche dravidici e munda) e in Occidente si sono uniti con le razze non-arie (gli indigeni europei) e le hanno elevate al livello della loro cultura. Per il futuro dell'India, prospetta anche un'unione con i 'gruppi culturali semitici' (rappresentati dai Musulmani e pare anche dai Cristiani) che chiama Neo-Hindustan. Alla fine, si lancia in un panegirico dell'azione unificatrice degli Arii:
After centuries of work, the Aryas have now prepared the world for such a larger unity of mankind by creating a common mentality in different races through the diffusion of the Aryan language in distant parts of the world. [...] We must thank the ancient Arya, the 'Indo-European' man, who thus long ago laid the foundations of the unity of the East and the West, and took the fire of his civilization to every home he could find.
Vediamo qui come il concetto di 'Aryan', che indica l'indoeuropeo ma porta con sé un'idea di nobiltà, potesse essere usato in senso non razzista, affermando una superiorità culturale che non porta però alla propria autosegregazione, ma ad un'unione con le altre razze e culture. Oggi anche una tale esaltazione culturale degli Indoeuropei appare pericolosa e inaccettabile (del resto lo stesso Kalla afferma di non voler ignorare il valore culturale dei Semiti e dei Cinesi), ma può essere ancora valido il richiamo a una cultura condivisa dai parlanti indoeuropeo, antico ponte tra alcuni popoli d'Oriente (Indiani e Iranici) e molti d'Occidente.
Particolarmente valida ci pare in particolare l'idea che gli Indoeuropei si siano fusi in Occidente con popoli locali non indoeuropei (perché gli 'aborigeni' dovrebbero essere sempre neri?), tra cui i Britannici, che geneticamente sono tra i più lontani dal panorama genetico degli Indiani, degli Iraniani, degli Slavi e dei Balti. Insomma, considerando questi i popoli più pienamente indoeuropei, i Britannici, anche dal punto di vista 'razziale' del Carlleyle, non risultano proprio "far more pure and genuine Aryans than the Hindus". In effetti, è veramente paradossale che un termine indo-iranico come 'arya' sia stato fatto proprio da popoli nordeuropei per poi pretendere di essere loro i veri 'arya'! Del resto, gli imperialisti non potevano certo concedere ai colonizzati e agli 'orientali' l'onore di costituire il popolo dei 'nobili'...

sabato 23 maggio 2009

Una nuova comprensione dell'Oriente

Abbiamo visto come Guénon sfidasse la visione occidentale del pensiero indiano, e come Sylvain Lévi fosse disposto ad accogliere la sfida. In effetti, anche se Guénon costituisce un caso particolare di una corrente di pensiero antimoderna ed esoterica, l’orientalismo occidentale in generale vive un ripensamento negli anni tra le due guerre mondiali, come nota Edward Said in Orientalismo (pp. 270-1 dell'edizione Bollati Boringhieri del 1991), dovuto alla crisi del colonialismo, con lo sviluppo di richieste di indipendenza da parte dei colonizzati, e a nuove prospettive nel campo delle scienze umane:
“Non si accettava più senza discutere che la dominazione europea sull’Oriente fosse un fatto pressoché naturale; né si presumeva che l’Oriente avesse bisogno dell’illuminismo occidentale. Ciò cui si dava importanza, nel periodo tra le due guerre mondiali, era un’autodefinizione culturale che trascendesse provincialismo e xenophobia.”
Un esempio di questa esigenza è in un articolo del 1931 dell’islamista H.A.R. Gibb, intitolato Literature, in The Legacy of Islam (p.209), citato sempre da Said (pp.269-70):
“[…] i romantici tedeschi […] per la prima volta si proposero consapevolmente di aprire una strada che permettesse l’ingresso in Europa dell’eredità della poesia orientale. Il secolo XIX, col suo nuovo senso di potenza e superiorità, parve chiudere la porta in faccia al loro progetto. Oggi, d’altra parte, si notano i segni di un cambiamento. La letteratura orientale è di nuovo studiata per il suo intrinseco valore, e si sta sviluppando una nuova comprensione dell’Oriente.Man mano che questa comprensione si diffonde e l’Est riacquista il suo posto nella vita dell’umanità, la letteratura orientale può ricominciare a svolgere la sua funzione storica, e aiutarci a superare le anguste e opprimenti concezioni che vorrebbero limitare tutto ciò che è significativo nel campo della letteratura, del pensiero e della storia alla nostra porzione del globo.”
C’è da chiedersi se questa apertura dei limiti della cultura occidentale sia avvenuta fino ad oggi, o sia rimasta limitata agli orientalisti…

lunedì 4 maggio 2009

Sylvain Lévi e René Guénon


René Guénon (ritratto nella foto a destra) è certamente in Italia un nome più noto di quello di Sylvain Lévi (qui a sinistra), grazie alla pubblicazione delle sue opere da parte della casa Adelphi (che d'altronde ha appena pubblicato l'opera di Lévi La dottrina del sacrificio nei Brāhmaņa, con la traduzione della mia collega e amica Silvia D’Intino), e alla sua forte proposta ideologica della 'Tradizione' sotto il segno dell'esoterismo. Guénon non si può considerare un indianista, certo non era un accademico, però seguì i corsi al College de France di Sylvain Lévi, allora massima autorità dell'indologia francese, e presentò alla Sorbona nel 1921 come tesi di dottorato in Lettere la sua Introduction générale à l’étude des doctrines hindoues, come si apprende in un articolo (René Guénon et l'Hindouisme) di Pierre Feuga, che si definisce 'Professeur de Yoga'
(http://pierrefeuga.free.fr/guenon.html#_ftnref15). E' sorprendente leggere che il grande indianista si dimostrò aperto verso la tesi di Guénon, nonostante contestasse l'indologia accademica occidentale. Così si esprime il Lévi a proposito della tesi:
En tout cas, il [Guénon] témoigne d’un effort personnel de pensée qui est respectable et que les philosophes apprécieront ; il apporte une conception curieuse des systèmes philosophiques de l’Inde, qui tout en choquant les indianistes peuvent les inviter à d’utiles réflexions. Enfin, la Faculté donnera une preuve manifeste de son libéralisme en acceptant cette critique violente de la ‘science officielle’ des philosophes comme des indianistes. Je crois donc devoir vous engager, Monsieur le Doyen, à accorder votre visa à la thèse de Monsieur Guénon.
Un liberalismo e un'apertura mentali abbastanza straordinarie per un accademico, considerato il rifiuto di Guénon per il metodo storico e il suo attacco totale all'orientalismo accademico, e tanto più in un'epoca come quella, segnata dal Positivismo. Tuttavia, nonostante tale illustre parere, al Doyen Brunot l'eresia di Guénon dovette apparire davvero eccessiva, e rifiutò l'approvazione.
Secondo il Feuga, Guénon fu poi aspramente criticato dall'indologia francese (in particolare dal fondamentale sanscritista Louis Renou) e nessun universitario si azzarda ad ammettere pubblicamente il suo apporto costruttivo. Del resto, lo stesso Sylvain Lévi, secondo la scarna voce di Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Sylvain_Levi), è stato uno dei primi oppositori di Guénon, "citing the latter's uncritical belief in a "Perennial philosophy", that is, a primal truth revealed directly to primitive humanity, based on an extreme reductionist view of Hinduism."
In effetti, il concetto guénoniano di Tradizione primordiale appare inaccettabile, o almeno inverificabile, da un punto di vista storico-critico, e alcune generalizzazioni di Guénon sull'India e l'Oriente appaiono più frutto delle sue predilezioni che realtà storica; Guénon si muove in un'ottica fortemente 'orientalista' nel senso di Edward Said, affermando il classico stereotipo dell'immobilità dell'Oriente, anche se rovesciando la consueta valutazione negativa di questo fatto in positiva (fedeltà alla Tradizione). Comunque la conoscenza da parte di Guénon del pensiero indiano è vasta e approfondita, e il suo punto di vista vuole essere rigorosamente aderente a quello 'indù' autentico, tanto che - racconta Feuga - il famoso indianista Alain Daniélou, quando presentò l'opera di Guénon a dei Pandit ortodossi, ne ricavò questo giudizio:
de tous les Occidentaux qui se sont occupés des doctrines hindoues, seul Guénon, dirent-ils, en a vraiment compris le sens

giovedì 23 aprile 2009

Un ammonimento profetico di un sanscritista francese


Riprendendo 'Orientalismo' di Edward Said, mi sono imbattuto (p.262 dell'ed. Bollati Boringhieri) in un passo piuttosto impressionante dell'illustre indologo francese Sylvain Lévi (nella foto), professore di sanscrito del Collège de France dal 1894 al 1935 (quasi gli stessi anni di Pavolini, però Lévi era decisamente di un altro versante, come ebreo francese). Ebbene, questi scrisse nel 1925 a proposito dei rapporti tra Occidente e Oriente:
"E' nostro dovere comprendere la civiltà orientale. [...] Quei popoli sono eredi di una lunga tradizione di storia, arte e religione, il cui senso non hanno interamente smarrito, e che probabilmente intendono prolungare. Noi ci siamo assunti la responsabilità d'intervenire nel loro sviluppo, talvolta senza consultarli, talaltra rispondendo a una loro richiesta [...] Sosteniamo, a torto o a ragione, di rappresentare una civiltà superiore, e in nome del diritto che ci verrebbe da tale superiorità, che regolarmente affermiamo con tanta sicurezza da farla sembrare loro incontestabile, abbiamo messo in discussione tutte le loro più radicate consuetudini [...]
In generale, quindi, ogni volta che gli europei sono intervenuti, l'indigeno ha provato una sorta di disperazione globale, resa particolarmente pungente dal sentire che il proprio benessere, nella sfera morale più che in termini meramente materiali, invece di crescere era in realtà diminuito. [...] La delusione è diventata risentimento da un capo all'altro dell'Oriente, e quel risentimento è ora assai prossimo a mutarsi in odio vero e proprio, e l'odio non fa poi che attendere il momento propizio per mutarsi in atti concreti.
Se per pigrizia o incomprensione l'Europa non compirà lo sforzo che le è richiesto nel suo stesso interesse, allora il dramma asiatico si avvicinerà al punto critico.
E' qui che la scienza, che è un modo di vita e uno strumento della politica - ovunque i nostri interessi siano in gioco - ha implicitamente il dovere di penetrare nell'intimo delle civiltà e dei modi di vita dei nativi per scoprire i loro valori fondamentali e le loro caratteristiche durature, invece di soffocarne l'esistenza sotto una massa incoerente di modi di vita importati dall'Europa."
Nonostante l'epoca del colonialismo appaia ormai lontana, e non si usino più termini come 'indigeni' e 'nativi', il messaggio conserva una sua scottante attualità, soprattutto per il mondo islamico, ma anche l'India è una di quelle 'civiltà orientali' a cui doveva pensare Sylvain Lévi. E' vero che essa appare amichevole e ospitale verso gli Occidentali, ma non mancano episodi di reazione violenta ai missionari cristiani (recentemente in Orissa), e una frangia di conservatori ostili all'influenza occidentale. Sta a noi comprendere la civiltà dell'India (e dell'Islam, e della Cina) per poter interagire con essa nel modo più corretto, rispettoso, e proficuo per entrambe le parti. E, naturalmente, per ampliare la nostra conoscenza dell'essere umano e delle sue (spesso sorprendenti) potenzialità, riconoscendo che le differenze culturali non ci fanno appartenere a categorie ontologiche diverse...