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lunedì 27 dicembre 2010

L'ardore e la storia - 2



 
Ora che ho finalmente tra le mani il pregevole libro di Calasso, posso fare una rettifica: non è che il nostro autore sia ignaro delle teorie alternative, piuttosto le liquida sommariamente, seguendo probabilmente Witzel, citato varie volte, anche se non a questo proposito. Scrive infatti Calasso (p.26):
"Da alcuni anni è in corso un'affannosa ricerca di ossa di cavallo da disseppellire nel Panjab. Brandite come armi improprie, dovrebbero servire a sgominare e disperdere gli aborriti Indoeuropei venuti da fuori, di là dal Khyber Pass, dimostrando che la loro novità - il cavallo - apparteneva già a quei luoghi. [...] Quanto ai guerrieri montati su carri con cavalli, non ve n'è traccia nei sigilli della civiltà dell'Indo."

Per guerrieri montati su cavalli (senza carri), bisogna aspettare i reperti di Pirak, nel Belucistan, successivi al 1800 a.C. (vedi qui per un'immagine). Come nota giustamente Calasso, l'uso vedico del cavallo, come in Medio Oriente e in Egitto nel II millennio a.C., è associato al carro, di cui il Nostro dice altrove parlando degli Ārya (pp.19-20): "Si muovevano periodicamente su carri con ruote provviste di raggi. Quelle ruote furono la grande novità che apportarono: prima di loro, nei regni di Harappa e Mohenjo-daro si conoscevano solo le ruote compatte, solide, lente."

Questo è un tipico mito della scuola invasionista: come si può vedere dalle due immagini sopra, a sinistra troviamo su una tavoletta convessa di Harappa il simbolo della ruota con raggi (vedi l'immagine con commento a questa pagina), che qui appare isolato, ma è usato comunemente nella 'scrittura vallinda'. A destra vediamo invece ruote giocattolo dai siti di età harappana Banawali e Rakhigarhi (nello stato indiano dello Haryana) con evidente indicazione di raggi, dipinti e in rilievo.

Secondo mito: l'assenza del cavallo nei siti 'harappani'. Qui a sinistra (dall'articolo di Michel Danino The Horse and the Aryan Debate) abbiamo una statuetta di terracotta da Mohenjo daro: anche se non particolarmente dettagliata (cosa normale per questo genere di manufatti), la lunghezza del collo, la figura slanciata, l'attaccatura della coda, la fanno identificare con un cavallo, come già fece Mackay nel 1943. Un altra figurina di terracotta con corpo e coda tipicamente equini è quella a destra, proveniente dal sito harappano maturo di Lothal nel Gujarat. Altri esempi si possono trovare nello stesso articolo (una piccola testa di cavallo tra pedine da gioco!) e nell'articolo di Rajaram Vedic-Harappan Gallery. Benché si tratti di poche raffigurazioni, questa sembra essere la norma in India prima del III sec. a.C., come osserva Danino nel già citato articolo: " “the first deliberate and conscious attempt of shaping a horse in durable material like stone was witnessed in the art of the Mauryas in India,” writes historian T.K. Biswas. Another historian, Jayanti Rath, commenting on the animals depicted on early Indian coins, remarks: “The animal world of the punch-marked coins consists of elephant, bull, lion, dog, cat, deer, camel, rhinoceros, rabbit, frog, fish, turtle, ghariyal (fish eater crocodile), scorpion and snake. Among the birds, peacock is very popular. The lion and horse symbols appear to have acquired greater popularity in 3rd century B.C.” "
Potremmo anche aggiungere che negli inni rigvedici l'animale che più ricorre e risalta come simbolo non è il cavallo, ma il toro (insieme alla vacca): Agni, Indra e altri dèi sono chiamati spesso 'tori' (vṛṣa), e questo concorda con la preponderante iconografia bovina dei sigilli harappani. Inoltre, quando i poeti-sacerdoti celebrano i benefattori, menzionano spesso doni di centinaia di vacche ma di pochi cavalli: ṚV VII.18.22-23 parla di 200 vacche e 4 destrieri offerti come ricompensa dal sovrano vittorioso Sudās... E il famoso sacrificio del cavallo (aśvamedha) era fatto solo dal sovrano che voleva celebrare il suo dominio universale...
D'altro lato, se è vero che il cavallo diventa più frequente nel periodo tardo harappano (successivo al 1900 a.C.), si tratta proprio del periodo in cui situo la maggior parte della redazione del Ṛgveda.

Ma a parte le raffigurazioni, abbiamo la testimonianza concreta di ossa di cavallo, che secondo Calasso sono cercate affannosamente dai negatori dell'invasione... veramente, sono piuttosto gli invasionisti che sembrano affannarsi a negare l'esistenza di tali ossa, come risulta dal racconto di Danino a proposito di Hallur in Karnataka, dove sono state trovate ossa di cavallo datate tra il 1500 e il 1300 a.C., un po' troppo presto per un sito dell'India meridionale:

"the excavation (in the late 1960s) brought out horse remains that were dated between 1500 and 1300 BCE, in other words, about the time Aryans are pictured to have galloped down the Khyber pass, some 2,000 [km.] north of Hallur. Even at a fierce Aryan pace, the animal could hardly have reached Karnataka by that time. When K.R. Alur, an archaeozoologist as well as a veterinarian, published his report on the animal remains from the site, he received anxious queries, even protests: there had to be some error regarding those horse bones. A fresh excavation was eventually undertaken some twenty years later — which brought to light more horse bones, and more consternation."

Ma, come scrisse l'archeologo S.P. Gupta nel suo The Indus-Saraswati Civilization, pp.159-163, Bhola Nath, "the most leading archaeo-zoologist of India" già nel 1968 identificò alcune delle ossa da Lothal (sito harappano del Gujarat) come di cavallo domesticato: Equus caballus Linn. Lo stesso riconobbe ossa di cavallo ad Harappa (livello maturo) e a Ropar nel Panjab. Nel 1974 A.K. Sharma identificò le ossa di Surkotada nel Kacch come di cavallo, e l'esperto di reperti equini ungherese Sándor Bökönyi confermò nel 1991 tale identificazione. Danino riporta anche il caso di Mahagara, vicino ad Allahabad, quindi in un'area molto più orientale, dove test al carbonio 14 sulle ossa di cavallo lì rinvenute hanno offerto datazioni tra il 2265 a.C. e il 1480 a.C. E il caso della valle del Chambal in Madhya Pradesh, dove M. K. Dhavalikar oltre alle ossa trovò una figurina di giumenta: "The most interesting is the discovery of bones of horse from the Kayatha levels and a terracotta figurine of a mare. It is the domesticate species (Equus caballus), which takes back the antiquity of the steed in India to the latter half of the third millennium BC."

Insomma, è assodato che nel III millennio a.C., in piena età harappana matura, il cavallo domestico era già ben presente, probabilmente importato, piuttosto che portato da invasori, dei quali gli archeologi (persino occidentali) non danno più conferma. Eppure, Calasso cita i "pochi elementi indubitabili" presentati da Frits Staal (illustre studioso di filosofia, linguistica e ritualismo vedico, ma non proprio uno storico o un archeologo) (pp.29-30): "Più di tremila anni fa, piccoli gruppi di popoli semi-nomadi attraversarono le regioni montuose che separano l'Asia centrale dall'Iran e dal subcontinente indiano. [...] L'interazione fra questi avventurieri centroasiatici e i precedenti abitanti del subcontinente indiano diede origine alla civiltà vedica [...]" In tutto ciò, di 'indubitabile' non c'è niente. Un po' più avanti Calasso avanza tuttavia qualche dubbio sulla recente tendenza degli studiosi che "Per paura di essere accusati di presentarli come bianchi Ariani predatori [...] hanno attenuato e smussato, per quanto potevano, l'immagine degli uomini vedici. Ora non sono più conquistatori che irrompono dalle montagne e mettono a ferro e fuoco il regno degli autoctoni, soggiogandoli crudelmente. Ora sono un gruppo di emigranti che, alla spicciolata, filtrano in terre nuove senza quasi incontrare resistenza, perché la precedente civiltà dell'Indo si è già estinta, per cause non accertabili. Correzione doverosa, corrispondente ai magri dati archeologici, ma talvolta sospettabile di un eccesso di zelo."
Bisogna dire che questa correzione non corrisponde ai 'magri' dati archeologici. Ma Calasso segue le sue fonti accademiche occidentali, per discostarsene però proprio quando mettono in dubbio l'invasione. Cosa da un certo punto di vista ragionevole, dato che è abbastanza inverosimile che un popolo possa prendere il sopravvento senza colpoferire: il fatto è che in questo modo torna al buon vecchio invasionismo ottocentesco.

Con tutto ciò non voglio certo demolire l'opera di Calasso, che mi si prospetta come straordinariamente preziosa in quanto sguardo fresco e inedito sulla civiltà vedica, con punti di vista non accademici che possono rivelare significati profondi. Voglio solo invitare chi, come lui, parla dell'India vedica anche da un punto di vista storico di approfondire il problema e non fermarsi alla versione di professori occidentali solo perché insegnano in università prestigiose. Invito a studiare il punto di vista degli archeologi e studiosi indiani, che magari hanno più voce in capitolo riguardo alla loro storia di quanta ne abbiano tedeschi, francesi o americani. E mi stupisco un po' che chi mostra di amare tanto i Veda come Calasso trascuri la loro versione dei fatti, che non contempla invasioni dall'Asia centrale, e che chi ha pubblicato i classici del Tradizionalismo preferisca adottare l'ottica sull'India dei moderni europei rispetto a quella tramandata per millenni nella terra di Bharata...

domenica 12 luglio 2009

Un ricordo di Ashoka

Chi era Ashoka? Sicuramente uno dei più significativi sovrani della storia umana, e il più celebre della dinastia Maurya che regnò sull'India settentrionale per 140 anni (quanto gli Inglesi, nota il Wolpert nella sua Storia dell'India). Ashoka regnò dal 269 al 232 a.C., e la sua politica conobbe una svolta nel 261, dopo la sanguinosa conquista del regno di Kalinga (attuale Orissa), che pare abbia toccato profondamente il sovrano, fino a indurlo a convertirlo ai principi non-violenti del Buddhismo, che lui iniziò a propagandare su editti (incisi su pietra e colonne), presentandoli come principi etici universali.
Alla fine di un interessante libello dell'indologo (professore di sanscrito a Roma dal '31 al '41) Carlo Formichi, "Apologia del Buddhismo", che ho nella seconda edizione del 1925, si trova un appassionato elogio di Ashoka, come esempio di riuscita applicazione dei principi buddhisti alla vita sociale e politica. Scrive il Formichi, introducendo l'argomento:

Dopo più di due millenni le rocce e le colonne incise dalla fede del grande Imperatore proclamano ancora all'umanità le leggi eterne della morale e ci parlano un linguaggio che sembra quello della nostra coscienza emancipata dalle pastoje del tempo e dello spazio. Noi veneriamo, noi ci prosterniamo dinanzi all'India che dal suo suolo ha ridato alla luce gli editti di Açoka. È una terra benedetta, è il paese sacro all'avvenire.

Come prova dell'adozione di una politica di pace invece che di conquista, in un'attitudine di amore universale che supera la nozione stessa di nemico, si può citare uno dei due editti ai Kalinga (le citazioni sono dal testo di Formichi):
Tutti gli uomini sono miei figliuoli: e così come desidero che i miei figliuoli godano d'ogni sorta di prosperità e felicità in questo e nell'altro mondo, del pari bramo lo stesso per tutti gli uomini.
I popoli confinanti non abbiano paura di me, e sappiano ch'io desidero recar loro gioia
non già afflizione, e avrò con loro tutta la pazienza possibile.
L'editto forse più impressionante per un moderno, per la sua limpida formulazione della tolleranza religiosa, è il dodicesimo su pietra, che recita:
Sua Maestà il re santo e grazioso rispetta tutte le confessioni religiose, ma desidera che gli adepti di ciascuna di esse si astengano dal denigrarsi a vicenda. Tutte le confessioni religiose vanno rispettate per una ragione o per l'altra. Chi disprezza l'altrui credo, abbassa il proprio credendo d'esaltarlo.
Nonostante la tolleranza, Ashoka mantenne severità nelle punizioni, anche in modi che a noi appaiono eccessivi (e certamente incoerenti con l'insegnamento non-violento del Buddha), ammettendo la pena di morte, perfino - riporta il Formichi - per chi in certi casi non pagava le tasse, mentre lo spergiuro e il furto erano puniti con la mutilazione. D'altro canto, in un altro celebre editto si dichiarava la limitazione dell'uccisione di animali per le mense di corte, e se ne prefigurava la cessazione completa. In un altro, il sovrano rende noto di aver fondato stabilimenti per ricoverare, curare, distribuire medicinali, soccorrere i poveri, gli infermi, i pellegrini, ha provveduto sulle vie carovaniere pozzi, alberi fruttiferi e frondosi per nutrire e dare ombra.
Quello che è particolare nella politica di Ashoka, è che non si limita alle punizioni, ma vuole promuovere la Legge, il Dharma, la norma etica universale tramite gli editti e i funzionari, i 'supervisori della legge' (dhammamahāmatta). Come dichiara negli editti su colonne:
Dopo ventisei anni dalla mia consacrazione è cresciuto, in grazia alle mie istruzioni, l'amor della gente per la Legge di pietà e sempre più crescerà. [...] Eccelsa è la Legge di pietà. Essa consiste in poco peccato e molte opere buone, nella compassione, nella liberalità, nella veracità e nella purità. [...] Perché gli uomini si conformino ai precetti della Legge di pietà, è necessario che la conoscano, sieno in essa bene istruiti. Perciò ho inviato dappertutto nel mio regno Commissari a predicare la Legge di pietà e ad istruire in essa la gente, ed ho fatto inscrivere su colonne i santi precetti.
Tutto ciò può apparire eccessivamente paternalista e proprio dell'aborrito 'Stato etico', eppure ancor oggi usiamo 'pubblicità progresso' per istruire il popolo, propagandiamo valori e principi di tolleranza e civiltà. Forse l'eticismo illuminato di Ashoka è più realistico del liberalismo amorale e utilitarista, e il semplice giustizialismo non può dare una forma valida alla società umana, senza l'affermazione di un sistema di valori condiviso che dia un'indicazione del senso ideale della vita in comune, nel rispetto del pluralismo.